Biennale 2022. Consigli per Cecilia Alemani

Il critico bolognese Renato Barilli offre a Cecilia Alemani, direttrice della Biennale Arte di Venezia slittata al 2022, una serie di consigli per affrontare l’impresa.

A metà gennaio avevo svolto un duro attacco a Paolo Baratta, in quanto, al momento di lasciare il suo pluri-mandato di presidente della Biennale di Venezia, con un colpo di coda si era arrogato il diritto di anticipare scelte future, nominando il direttore del settore visivo nella persona di Cecilia Alemani. Ma forse è vero che il ministro competente, Dario Franceschini, gli aveva dato un via libera in quanto già rivolto a nominare un presidente della Biennale, per il prossimo quadriennio, nella persona di Roberto Cicutto, esperto più che altro di cinema, quindi abbastanza indifferente per quanto riguarda l’altro settore. Del resto, bisogna riconoscere che la Alemani è stata negli anni passati la migliore curatrice del Padiglione Italia, invitando, nell’edizione 2017, due ottimi esponenti, Roberto Cuoghi e Giorgio Andreotta Calò.
Quindi, bando alle polemiche, passo piuttosto a permettermi di dare consigli alla neo-eletta direttrice, in base alle mie esperienze, di persona per due volte coinvolta nelle Biennali passate, e attento cronista di quasi tutte le varie edizioni, fin da una lontana del 1956. Dunque, tenti la Alemani di andare oltre il corto respiro proprio della categoria dei curators, collocando nel Padiglione centrale ai Giardini non già una furba accolita di artisti alla moda del giorno, quelli che i suoi colleghi si passano per le mani, rispettando una sorta di manuale Cencelli. Cerchi di cogliere qualche tendenza dominante del momento, anche se senza dubbio siamo in regime di eclettismo dominante, ma in definitiva anche questo ha le sue regole, i suoi ritmi. Per esempio, vogliamo mettere a fuoco il fenomeno che prende il nome di “glocalismo” nelle sue varie componenti? Ma soprattutto, rimetta in piedi la fondamentale distinzione tra un Padiglione centrale ai Giardini, chiamato a ospitare presenze ormai storicizzate e comunque di grande respiro, collocando invece alle Corderie dell’Arsenale le più giovani e promettenti emersioni. Ovvero, rilanci la fortunatissima sezione detta dell’Aperto, con una corretta distribuzione delle parti tra i due spazi.

La Alemani rimetta in piedi la distinzione tra un Padiglione centrale ai Giardini, chiamato a ospitare presenze ormai storicizzate, collocando invece all’Arsenale le più giovani e promettenti emersioni”.

E pur avendo ben operato a suo tempo per quanto riguarda la partecipazione italiana, abbia il coraggio di farle abbandonare i remoti stanzoni posti alla fine del percorso dell’Arsenale, ne riporti le presenze, quali che siano, nel Padiglione centrale, dedicando loro un’intera ala di questo. Il Paese ospitante, e pagante le spese generali della manifestazione, se lo merita, di mettere in bella evidenza le sue promesse del presente-futuro, invece di quasi nasconderle alla vista, cedendo a quella sorta di esterofilia di cui siamo vittima.
E non è finita qui: come direttrice, potrebbe anche riprendere una facoltà che un tempo era riconosciuta ai suoi predecessori, di concertare con l’infinita serie dei padiglioni stranieri qualche linea-guida, evitando che questi si mutino in una insopportabile arlecchinata di proposte tra loro disparate, in un coro discorde e stonato.

Renato Barilli

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #54

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Renato Barilli

Renato Barilli

Renato Barilli, nato nel 1935, professore emerito presso l’Università di Bologna, ha svolto una lunga carriera insegnando Fenomenologia degli stili al corso DAMS. I suoi interessi, muovendo dall’estetica, sono andati sia alla critica letteraria che alla critica d’arte. È autore…

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