Quando la migrazione è una “cuestiones de estado”. Intervista a Regina José Galindo

L’artista guatemalteca, invitata per una residenza presso l’Accademia di Spagna a Roma, racconta il suo progetto, la condizione delle donne nel mondo, i temi della migrazione e la nuova generazione di artisti politici

Incontriamo Regina José Galindo in occasione di Lavarse las manos, un progetto site-specific sviluppato dall’artista nell’ambito della residenza estiva a Roma presso la Real Academia de España en Roma. I risultati, a cura di Federica La Paglia, saranno in mostra dal 13 dicembre al 23 febbraio 2020. Lavarse las manos è solo una parte di un ben più ampio progetto intitolato “cuestiones de estados”, che pone un’attenzione particolare sulla delicata tematica della migrazione. Promosso dal Ministero degli Affari Esteri, dell’Unione Europea e Cooperazione di Spagna, dal Centro Culturale di Spagna in Guatemala e dalla Real Academia de España en Roma, proseguirà poi a Madrid sempre a dicembre 2019.

Regina José Galindo, Lavarse las manos - Real Academia de España en Roma

Regina José Galindo, Lavarse las manos – Real Academia de España en Roma

CHI È LA GALINDO

Regina José Galindo (Guatemala, 1974), vincitrice del Leone D’Oro alla 51ma Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia nel 2005, tra i partecipanti alla 14a edizione di Documenta, ha sviluppato un progetto site-specific composto da una performance partecipativa – che ha avuto luogo martedì 10 dicembre presso la Real Academia de España en Roma- e una mostra che aprirà le porte al pubblico il 13 dicembre. Questa sarà composta da un audio ambientale e da alcune fotografie che documenteranno l’azione già avvenuta. Sensibilizzare e concretizzare mondi che molte volte sentiamo lontani ma che in verità sono vicini, toccandoci nel vivo: questo è quello che fa la Galindo, da sempre attiva nelle delicate questioni politico-sociali. Volevamo saperne di più e l’abbiamo intervistata.

“Lavarse las manos” è una parte del grande progetto intitolato “cuestiones de estado” che pone l’attenzione sul tema della migrazione. Puoi spiegarci come è nato?

Nasce a partire dalla residenza che ho fatto nell’Accademia di Spagna a Roma, durante il mese di luglio, e con l’intenzione di approfondire il tema della migrazione andando al di là del mio contesto territoriale. Stavo già lavorando su questa tematica in Guatemala e mi interessava vedere quale piega poteva prendere il problema in differenti punti del pianeta. Lo scorso anno (sempre in Guatemala) una carovana di settemila persone – formata per la maggior parte da donne e bimbi – si era mossa dal paese per potersi dirigere verso gli Stati Uniti. Questo evento ha cambiato la prospettiva della migrazione ed è proprio da qui che ho deciso di lavorare e fare ricerca.

Regina Josè Galindo, Piedra, 2013, Sao Paolo, Brazil, glossy print on forex, 90 x 135 cm, Photo credit Julio Pantoja, Marlene Ramírez-Cancio, courtesy The artist and prometeogallery Milan:Lucca

Regina Josè Galindo, Piedra, 2013, Sao Paolo, Brazil, glossy print on forex, 90 x 135 cm, Photo credit Julio Pantoja, Marlene Ramírez-Cancio, courtesy The artist and prometeogallery Milan:Lucca

Il progetto proseguirà a Madrid nel mese di dicembre 2019. Puoi raccontarci che forma prenderà e dove avrà luogo? Sarà prevista una nuova performance? Se sì, che ruolo avrà il pubblico in questo caso?

La historia la escriben quienes sobreviven” è la seconda parte del progetto “cuestiones de estado” che avrà luogo a Casa America, a Madrid. Il progetto ha comunque dei punti in comune con quello di Roma. In questo caso lavoro con un gruppo di tre ragazzi africani di origine senegalese. Mi interessava la visione delle donne e quella degli uomini. Sul tema della migrazione mi interessava averle entrambe perché parliamo di tortura, di sofferenza, per tutti. Qui lavoro con un gruppo di venditori ambulanti, instaurando una reazione con loro e la loro famiglia. 

E che cosa fai?

Una performance. L’iter è lo stesso che ha accompagnato il progetto di Roma. Nel progetto di Madrid si evince, nonostante i differenti punti di vista, che per quanto un progetto nasca come umanitario, si conclude parlando di un problema economico. Parliamo delle sofferenze di queste persone, parliamo di migrazione, per concludere poi che tutto ruota attorno al denaro. In questo caso il pubblico sarà un semplice spettatore, ci sarà sempre una minima partecipazione (non sarà un auditore passivo) ma non altrettanto attiva come nell’azione che ho pensato per Roma.   

Il tuo corpo si fa portavoce -attraverso la performance- di un malessere che passa dalla sfera “singola” a quella “collettiva” attraverso un coinvolgimento emotivo. Una presa di coscienza e senso di responsabilità che vedrà “l’attiva partecipazione del pubblico in un percorso obbligato”. Puoi spiegarci il perché di questa scelta?

Generalmente a me interessa la partecipazione del pubblico, sia dal punto di vista emotivo che dal punto di vista pratico, non mi interessa quello passivo.

Ci sono performer alle quali ti senti più vicina sulla base delle tematiche trattate, modalità e impegno sociale?

Ci sono artiste alle quali mi sento vicina. Nutro molta ammirazione per la nuova generazione di artiste. Sono un passo avanti! Per dire, io mi sento in sintonia con quel gruppo di artiste che sono a cavallo tra gli anni ’90 e 2000 come Anna Mendieta, Tania Bruguera, Teresa Margolles; però, ultimamente, seguo artiste molto più giovani che hanno incrociato la strada dell’etica e quella dell’arte. Mi sento indietro rispetto a loro ma le guardo con rispetto, come: Papas Fritas in Chile o Las Tesis. La nuova manifestazione dell’arte e la “gente nueva” che opera nell’arte-politica ha fatto un milione di passi avanti rispetto a noi. Non sono restati nella formalizzazione dell’idea ma hanno rotto gli schemi. Anche a me piacerebbe, certo! Però mi sento un’artista di 45 anni e una generazione più giovane lo farà sicuramente meglio di noi. In questo momento i movimenti artistici, sociali e politici nell’America Latina si incrociano e sono tanto lungimiranti che stanno cambiando le forme del fare ricerca, in tutto il mondo. Per esempio, oggi, ho letto la notizia che la performance del Las Tesis (che ha radunato molte donne in piazza) è stata riproposta in altre parti del mondo, come ad Istanbul, ma le partecipanti sono state arrestate.

Regina José Galindo, Make America Great Again, 2017

Regina José Galindo, Make America Great Again, 2017

Come hai vissuto il tuo periodo di residenza a Roma?

Nell’Accademia mi sono sentita bene, è un’Istituzione, mi ha accolto e ha rispettato le mie idee, facendo del tutto affinché il mio lavoro andasse avanti. L’istituzione ti invita, sa chi sei, riconosce il tuo nome, ma la gente che ti vede per strada fisicamente ti identifica come l’”altro”. L’Italia è sempre stato un luogo dove mi sono sentita veramente ben accolta. (Durante la residenza a Roma, nel mese di luglio, l’artista è stata “vittima” di un’aggressione verbale da parte di un barista, il quale l’ammonì dicendole “non vogliamo latini qui”. L’artista ha prontamente reso nota di questo comportamento al suo direttore e, tramite le telecamere in sito, si è evinto che tale soggetto non era nuovo a questo tipo di atteggiamenti, ndr). Non accetto nessun attacco, atti di discriminazione e di sottomissione, e ho deciso di “denunciare”.

“La storia troppo spesso si scrive sul corpo delle donne” un’espressione tanto dura quanto vera. Puoi spiegarci come è stato, dal punto di vista emotivo, relazionarsi con la dura realtà di queste donne? Cosa ti è rimasto di loro?

È stato un tipo di relazione orizzontale creando un legame stretto con le donne e, allo stesso modo, con i ragazzi senegalesi in Spagna. Mi è stato possibile perché sono guatemalteca. Quando loro parlano della loro storia io mi apro a loro, parlo della situazione in Guatemala, ribadendo, che siamo sullo stesso piano e che non esiste alcuna verticalità.  “La storia troppo spesso si scrive sul corpo delle donne”; confermo dicendo che le storie degli uomini che emigrano sono terribili, per le donne in più è presente la violenza sessuale. Il pericolo di una violenza che può manifestarsi in qualsiasi momento del viaggio, alla partenza, durante, con i propri “compagni” di viaggio, con i trafficanti, nel momento in cui arrivano. “La storia troppo spesso si scrive sul corpo delle donne” a causa delle violenze. È quello che io ripeto sempre in Guatemala quando, ogni giorno, vengono date notizie sugli uomini uccisi. Di loro, dei loro corpi, si vede solo un colpo di pistola; delle donne (tutte senza alcuna eccezione), invece, prima di essere assassinate sono violentate e torturate. Questo è scritto sulla nostra pelle e si trasmette di generazione in generazione. La nuova, e la nuova forma di femminismo appena nata, lotta non solo da qui al futuro ma riscatta il passato. Ad ottobre ho fatto una residenza in Germania con il progetto “Raccontare le violenze subite dalle donne tedesche da parte degli alleati” entrando in relazione con donne di 80/90 anni che avevano taciuto per tutta la loro vita. Americani, francesi e inglesi violentarono migliaia di donne quando era già finita la guerra, e mai nessun parlò di questo. Un mio collaboratore, che mi aiutava nella registrazione, mi disse “questa è anche la storia della mia famiglia, anche se non ce lo siamo mai detti”.

Puoi raccontarci i tuoi prossimi progetti?

Lavorerò. La settimana prossima partirò per la Spagna, a Madrid (precisamente il 16 dicembre), per la seconda parte di “cuestiones de estado”. A gennaio un nuovo progetto a Berlino, sulla tematica della violenza sulle donne. Poi si concluderà il progetto della migrazione in Guatemala (terza e ultima tappa) e, poi, chiuderò il progetto della Soros Foundation. 

– Valentina Muzi

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Valentina Muzi

Valentina Muzi

Valentina Muzi (Roma, 1991) è diplomata in lingue presso il liceo G.V. Catullo, matura esperienze all’estero e si specializza in lingua francese e spagnola con corsi di approfondimento DELF e DELE. La passione per l’arte l’ha portata a iscriversi alla…

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