Non si chiami Land Art: la poetica di Richard Long (Bristol, 1945) non stravolge la natura, ma interagisce con essa come un Pellegrinaggio d’autunno che segue e scandisce il tempo della natura; un impulso che spinge a errare per tornare (davvero) a casa, lasciando razionali tracce del passaggio umano. “Noi dobbiamo almeno per una sola volta guardare come siamo”, scriveva Hesse: attuale è la testimonianza di tale osservazione antropologica proposta da Long, grazie all’utilizzo del fango, primitivo specchio della storia; e all’impiego di forme geometriche (cerchi, linee, ellissi) tracciate a mani nude, metafora di un cammino verso l’ignoto sorretto da schemi perfetti e ideali.
Il passo dell’artista diventa metro: a una vita vera appartengono non solo la purezza, ma anche uno sguardo sul caos. Long è riuscito nell’impresa di sintetizzare, chiaramente e con coscienza, il frenetico caos dell’uomo e la distesa armoniosa di purezza della natura. Una personale trasformazione che diviene universale, che ci appartiene come un “segreto miracolo di tutti i giorni”.
‒ Federica Maria Giallombardo