È spontaneo intuire che il ritratto esposto all’ingresso di KURA è quello di Patrizio Di Massimo (Jesi, 1983; vive a Londra), anche per chi non conosce il suo volto e ancora non ha letto il titolo, Self-portrait as abstract painter (after Annie Leibovitz): nei panni, seppur virati in rosa, di Steve Martin immerso in un dipinto di Franz Kline, l’artista pare introdurci allo show. Lo sguardo che si incontra subito dopo è quello di una bambina che, seduta su un divano verde, osserva curiosa chi sta entrando: Diana (6 months).
Ogni opera merita di essere descritta meticolosamente, perché i giochi cromatici intensi fanno sentire gli ambienti dipinti, come se fossimo trascinati nelle opere: il vestito a righe della bambina, le tappezzerie, le stoffe e i drappeggi ci guidano nel mondo di Patrizio Di Massimo, sublimando istanti. Significativo, in questo senso, è il caso di Bauhau, in cui un cane si stiracchia imperturbabile davanti a una coppia che litiga.
Il realismo magico si lega all’ambiguo, in un costante dialogo teatrale – a tratti giocosamente perverso – fra ritratto e performatività, tradizione e riattivazione di codici visivi.
– Claudia Santeroni