The Magnetic Fields, la mostra curata da Cecilia Alemani presso la Galleria Gió Marconi di Milano, pare una casa-museo di artificialia, “oggetti di ingegno creati dall’uomo”: un susseguirsi affollato di opere attorniate da un alone di mistero, molte delle quali in temperatura surrealista.
Nella semi oscurità color vinaccia, lo spettatore è accolto da una galleria di sculture (i legni totemici di Louise Nevelson, L’Enigme d’Isidore Ducasse e la Venus restaurée di Man Ray) che fronteggiano una serie di immagini del fotografo surrealista, scatti debitori di Eugène Atget e anticipatori di quelli di Helmut Newton, tra i quali spicca First Steps (Coat Stand)/Coat Stand, incesto tra un manichino e un nudo femminile.
Nell’ambiente principale, un denso impianto scenico di opere instaura un dialogo generazionale: una raccolta di piccole sculture-scatole, il cui potere evocativo deriva dalla loro innata capacità di contenere misteri, tra le quali Same old song di Genesis Belanger, un perturbante giradischi in porcellana e pietra su cui ruota una treccia di capelli femminili.
Imperversa il simbolismo sessuale, che si esplicita nei lavori di Hannah Levy: un asparago-fallico di silicone e poliuretano e il piccolo video in loop in cui due mani stimolano degli auricolari.
‒ Claudia Santeroni