La mostra di Judy Chicago all’ICA di Miami. Il report e le immagini

Le immagini di Judy Chicago: Reckoning, la mostra che l’ICA di Miami ha dedicato all’icona femminista

Nel corso di un’assolata mattinata durante l’art week di Miami, il Design district ospitava un’icona dell’arte femminista che si raccontava attraverso le sue opere. Il 4 dicembre, The Institute of Contemporary Art ha aperto la mostra Judy Chicago: A Reckoning con una visita per la stampa, guidata dall’artista stessa che ha ripercorso quarant’anni di arte e femminismo attraverso i sette corpi di lavori esposti, realizzati tra gli anni ‘60 e i ‘90.
Judy Chicago, 79 anni, originaria della città da cui ha preso il nome d’arte, è nota al grande pubblico soprattutto per la sua opera The Dinner Party, composta da un tavolo triangolare che riproduce un banchetto cerimoniale in cui ogni posto ricorda una donna celebre della storia. L’opera, realizzata negli anni ‘70, ha identificato l’artista per lungo tempo, tanto da farle sentire il bisogno di uscire da quell’ombra, come ha spiegato lei stessa durante la presentazione all’ICA.

Judy Chicago davanti a una parete con i suoi schizzi

Judy Chicago davanti a una parete con i suoi schizzi

LA FEBBRAIO L’OPERA SITE SPECIFIC

La mostra, che occupa un intero piano del museo e che a febbraio si arricchirà di una scultura realizzata da Chicago per l’occasione, comprende opere storiche e lavori meno noti, alcuni dei quali vengono esposti al pubblico per la prima volta da decenni. In apertura la scultura Sunset Squares, realizzata nel 1965, poi distrutta e riprodotta qui per la prima volta. Sulla parete di fronte, una sequenza di quattro dei cofani d’auto per cui l’artista è nota. “Iniziai a fare questi cofani nel ‘65 quando ero alla scuola d’arte di Los Angeles. Ricordo che avevo sentito Chamberlain, che allora viva ad L.A., dire che avrebbe voluto iscriversi a un corso di pittura di carrozzeria perché lì, diceva, si imparava davvero a dipingere. Lui non si iscrisse mai, ma io sì: ero l’unica donna in una classe di 255 uomini; mi facevano indossare una tuta enorme e credo che l’unica ragione fosse che temevano che, quando mi chinavo a dipingere, mi si potessero vedere le tette che avrebbero distratto tutti quegli uomini. Comunque ho imparato più lì che alla scuola d’arte”.
I cofani, che riproducono immagini stilizzate degli organi riproduttivi femminili, non ricevettero l’attenzione che meritavano e l’artista li accantonò per lungo tempo: “Ero stata criticata per il tipo di immagini che proponevo e solo molto tempo dopo mi resi conto che non c’era niente di male nelle mie immagini. Ho sempre voluto fare un’arte che restituisse potere alle donne”.
Proseguendo la visita della mostra, l’artista si è fermata davanti a Heaven is for White Men Only, una tela del 1973: “L’attuale movimento femminista critica il femminismo degli anni ‘70 per non aver incluso nel proprio messaggio la questione della razza, ma questo quadro dice il contrario, le linee rappresentate in quest’opera suggeriscono le intersezioni tra il genere e la razza: è solo la combinazione dell’essere maschio e bianco a garantirti l’ingresso in paradiso”.

DAGLI ANNI ’70 AD OGGI

Su un’altra parete, una sequenza di tre grandi tele esposte insieme per la prima volta dal 1984 approfondisce il messaggio femminista di Chicago facendo entrare l’uomo per la prima volta nei suoi lavori. Si tratta di tre quadri che denunciano l’energia distruttiva della dominazione maschile mettendo in relazione l’uomo con la distruzione dell’ambiente, la proliferazione delle armi e, in ultimo, l’estinzione dell’umanità.
Seppure densa di critica, l’arte di Judy Chicago ha una forte componente positiva e costruttiva. Costante è stato negli anni il suo sforzo di promuovere il lavoro delle donne e coinvolgerle in un processo positivo di cambiamento. Lo dimostrano, tra le altre, le opere realizzate con varie tecniche di ricamo che l’artista ha approfittato per spiegare nei dettagli: “Quando ho iniziato a fare opere di questo genere, non le faceva nessuno e la critica non sapeva valutarle, perché non era preparata. Oggi vedo che questo genere è sempre più diffuso, ma la critica continua a non avere gli strumenti per valutarlo”, ha spiegato illustrando le differenze tra una tecnica e l’altra. Nel realizzare queste opere, Judy Chicago ha coinvolto decine di donne, creando una comunità e una consapevolezza intorno all’immagine femminile. “Mi resi conto che c’era un vuoto iconografico intorno all’atto di mettere al mondo una vita e volevo creare un’immagine positiva intorno a questo tema che è ben più universale di quello, invece molto esplorato dall’arte, della celebrazione delle imprese maschili”.
La mostra è sponsorizzata dall’italiana Max Mara che per l’occasione ha commissionato all’artista una T-shirt in edizione limitata che riproduce un elemento di una delle opere di Chicago. La maglia, nata dalla collaborazione tra il direttore creativo di Max Mara, Ian Griffiths e l’artista, sarà lanciata e messa in vendita a partire dal 16 gennaio a New York, Los Angeles e Miami. L’artista ha scelto l’immagine per la T-shirt da uno dei cofani.

LE PAROLE DI MARAMOTTI

“Mi affascina la ricerca che Judy porta avanti da anni sulle grandi donne del passato, amo la sua estetica, la sua incredibile energia e il modo personale in cui affronta le tematiche femminili”, ha commentato Maria Giulia Maramotti, nipote del fondatore della casa di moda di Reggio Emilia, “Quando ci hanno proposto questo progetto, quindi, ne sono stata entusiasta, ci fa molto piacere sostenere questa mostra: sono soldi ben spesi”. Maramotti ha poi raccontato ai giornalisti come la sua bisnonna avesse creato una scuola di sartoria per donne, convinta che l’indipendenza si raggiungesse attraverso il lavoro. Un aneddoto che è piaciuto molto a Judy Chicago che da sempre ha cercato di sviluppare un modo tutto femminile di essere artista e attivista: “Negli anni ‘60 non c’erano molte artiste donne e il complimento più grande era ‘dipingi come un uomo’, ma è una cosa che a me non è mai riuscita”, ha commentato.

– Maurita Cardone

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Maurita Cardone

Maurita Cardone

Giornalista freelance, abruzzese di nascita e di carattere, eterna esploratrice, scrivo per passione e compulsione da quando ho memoria di me. Ho lavorato per Il Tempo, Il Sole 24 Ore, La Nuova Ecologia, QualEnergia, L'Indro. Dal 2011 New York è…

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