Ecologia ad arte. Mostra collettiva a Treviso

TRA Treviso Ricerca Arte ‒ fino al 10 febbraio 2019. Riuso e consapevolezza ecologica sono alcuni temi cardine della collettiva allestita nella sede trevigiana.

Con la sua possibilità di porre dei quesiti, di offrire spunti di riflessione o di mostrare scenari mai concepiti prima, che piaccia o meno, l’arte si fa carico di responsabilità da non sottovalutare e ogni esposizione artistica che si rispetti acquisirebbe meriti superiori se, in un modo o nell’altro, riuscisse ad affrontare lo spirito del proprio tempo.
Quale momento migliore, dunque, tra strategie capitalistiche che a furia di Black Friday e Cyber Monday ci cambiano letteralmente le giornate, e apocalittiche premonizioni di un presente/futuro minacciato dal riscaldamento globale e dalla straripante sovrabbondanza della plastica, per porre l’attenzione sull’attuale percezione degli oggetti e il loro possibile riutilizzo ecologico?
Il curatore Valerio Dehò, insieme all’associazione TRA Treviso Ricerca Arte, ha ben pensato di scandagliare almeno un aspetto di questo Zeitgeist concependo una mostra, tanto accessibile quanto articolata, in una città emblematica per il suo apprezzato metodo di smaltimento dei rifiuti. Co-organizzata dal Comune di Treviso e dai Musei Civici RE.USE. Scarti, oggetti, ecologia nell’arte contemporanea si disloca in tre sedi differenti, nonché prestigiosi luoghi storici dedicati alla fruizione artistica. Con l’intenzione di fare luce su una condizione a dir poco allarmante, l’intero progetto parte dalla visione di quegli artisti che, dai primi del Novecento fino ai giorni nostri, si sono interrogati non solo sui molteplici valori dell’oggetto, ma anche e soprattutto sulla possibilità di inclusione dello stesso all’interno di un discorso più ampio, teso a escogitare delle soluzioni alternative capaci di svincolarci sempre più da un attanagliante feticismo consumistico che da possessori può trasformarci facilmente in posseduti.

IL MUSEO DI SANTA CATERINA

Uno dei primi incontri che lo spettatore è invitato a fare, volendo percorrere un itinerario cronologico, è quello con un’opera concepita dal collettivo nostrano Cracking Art (da sempre attivo sul piano socio-ambientale e attento a un utilizzo rivoluzionario dei materiali plastici): un grande elefante rosso che, quasi a voler simboleggiare l’importanza del contemporaneo nel sostegno dell’antico, sorregge la facciata esterna del Museo di Santa Caterina. All’interno della struttura trecentesca, più precisamente nella Sala Ipogea, si ha la possibilità di prendere parte a un excursus storico dove alcuni mostri sacri della storia dell’arte fanno da padroni e che il borgo trevigiano, abituato in passato esclusivamente a grandi mostre blockbuster, non è mai riuscito ad ammirare prima d’ora. Si comincia dunque con l’obbligata esposizione degli interventi provocatori di matrice dadaista di Marcel Duchamp e Man Ray, che, attraverso l’introduzione dell’ormai tanto abusato concetto di ready-made, hanno rivoluzionato per sempre lo status stesso dell’opera d’arte. Ciò che si compie è un vero e proprio tuffo nell’insegnamento delle avanguardie storiche, dove la concezione di “accumulo di materiale industriale” riesce a mettere in dialogo tanto i collage di Kurt Schwitters quanto la critica alla società dei consumi propria delle opere di Nuovi Realisti quali César, Arman e Christo, che con il suo Wrapped Kunsthalle Bern riporta alla mente addirittura l’idea di packaging.
Si prosegue poi all’insegna degli Anni Settanta, dove l’oggetto assume sia le sembianze di utensile strettamente legato alla natura (come nel caso del sorprendente lavoro, dai risvolti antropologici, di Claudio Costa, Natura Naturata ‒ Il Portapiatti, da “Indagine su una cultura – Monteghirfo) che di testimonianza di un particolare evento accaduto, come avviene con il “sudario” rappresentato da Michelangelo Pistoletto nella sua Tovaglia sporca di vino del 1979 (che ben dialoga con il Tableau “Restaurant Spoerri 27 marzo” di Daniel Spoerri).
Nelle due decadi successive, una svolta ecologica, di retaggio sicuramente poverista, porta l’artista a prendere in considerazione nuove prospettive per un reimpiego consapevole dei materiali che lo circondano. Emblema di un discorso simile non è più solo l’approccio di un gigante come Jannis Kounellis, ma anche la sottile e disarmante intuizione di Tony Cragg di utilizzare dei mattoni veri e propri per assemblare grattacieli e palazzi dalle sembianze estetiche di colossali costruzioni per bambini.
L’esposizione prosegue al piano superiore, nell’Ala Foffano, dove l’arte passa da una condizione di “oggetto ansioso”, come era solito definirla il critico statunitense Harold Rosenberg, a quella di oggetto mostruoso e inquietante attraverso opere che, come ricorda anche lo stesso Dehò nel catalogo della mostra (edito da Silvana Editoriale e progettato da Multiplo), per la loro forza conturbante riescono perfino a evocare cattivo odore: è questo il caso degli interventi di Thomas Hirschhorn, Paul McCarthy e Damien Hirst, che rappresentano il prodotto di uso comune in tutta la sua crudezza, accomunandolo con spietata lucidità alla vita stessa dell’essere umano. Degni di nota sono inoltre i lavori del maniacale Vik Muniz, di Arcangelo Sassolino e di Armando Lulay, che con il suo video Time out of joint porta lo spettatore in una infernale discarica albanese dove un monolite di ghiaccio viene lasciato al suo inevitabile destino tra sguardi incuriositi e bambini, che con esso interagiscono traendone così sia sollievo che gioiosa soddisfazione.
A chiudere questa prima sezione è uno spazio vuoto/work in progress destinato a raccogliere gli elaborati prodotti in occasione di un laboratorio che, organizzato dalla scuola di formazione ed educazione ambientale Contarina Academy, ha coinvolto alcuni studenti del Liceo Artistico Statale di Treviso.

RE.USE. Giovanni Morbin, After Szeemann

RE.USE. Giovanni Morbin, After Szeemann

MUSEO CASA ROBEGAN

Sicuramente diverso e più leggero è invece il discorso affrontato nel Museo Casa Robegan, che immediatamente prepara lo spettatore accogliendolo con un simpatico esercito di guardinghi suricati, sempre merito dei Cracking Art. In questo contesto l’oggetto viene analizzato in termini differenti: a tratti ludici e inquietanti (come nelle opere interattive ‒ nell’accezione più analogica del termine ‒ di Francesco Bocchini e Giovanni Albanese), felici e propiziatori (i tappi decorati di Margaret Majo) o rituali e misteriosi, come si può vedere dall’ormai storico video di Fischli & Weiss The way things go. Un discorso a parte merita Flavio Favelli che, con la sua solita maestria, riesce a recuperare manufatti di epoche diverse assemblandoli con rara poesia per restituire delle opere capaci di richiamare alla memoria ricordi intimi che mutano in esperienze comuni.

CA’ DEI RICCHI

Terza e ultima tappa è la sede stessa dell’associazione TRA Treviso Ricerca Arte, che racchiude opere caratterizzate da approcci particolarmente contemporanei al fare artistico. Anche in questo caso le interpretazioni della stessa problematica nascono da sensibilità diverse, capaci di offrire punti di vista estremamente personali. Originale il processo di smembramento e trasmutazione che mette in atto il thailandese Pratchaya Phinthong estraendo fili di rame da un cumulo di cavi elettrici per poi fonderli e ricavarne ganci, viti e altra minuteria metallica utile per l’allestimento di future opere d’arte. Notevoli e poetici i lavori di Luca Vitone e Giovanni Morbin: se il primo cristallizza la memoria, realizzando un acquerello su carta e polvere, il secondo, quella stessa idea di ricordo, la custodisce all’interno di aspirapolveri che assumono le sembianze di urne funerarie, contenendo testimonianze impercettibili di ricerche e di esperienze vissute rinvenute all’interno dello studio del lungimirante curatore svizzero Harald Szeemann. Interessanti ma lievemente deludenti, invece, gli unici due lavori che in qualche modo affrontano un discorso più attuale di distopia legato all’odierno avanzamento tecnologico.
Con il loro progetto Karma Fails, Meditation Rocks®, i giovani The Cool Couple riflettono sullo scetticismo nei confronti di derive new age, mostrando una sorta di piccolo giardino zen costituito da plastiglomerati (ovvero delle pietre formate da materiale organico fuso con la plastica) in relazione con quattro elaborazioni digitali rappresentanti la versione “contaminata” dei rispettivi elementi naturali; nell’installazione The place, di Marco Bolognesi, ci si trova invece davanti al plastico di una città immaginaria formata da tappi di contenitori e altri oggettini dal retrogusto novecentesco che, visualizzato attraverso un visore e un software di realtà aumentata, dà la possibilità di vedere un’isola alternativa fluttuare al di sopra dell’asfissiante scenario precedentemente descritto. Nonostante i presupposti stimolanti, in entrambi i casi si percepiscono tuttavia dei gap tra i diversi linguaggi, dei tasselli mancanti che non fanno dialogare bene i plastiglomerati con le stampe fotografiche o la maquette urbanistica con la realtà aumentata.
In conclusione RE.USE si presenta come un progetto fresco che lancia uno sguardo al passato per interrogarsi sia sul presente che sul futuro, accontentando al tempo stesso lo spettatore neofita e quello più esigente. Un’esposizione estremamente attuale e perciò necessaria, non solo per la sua capacità di affrontare in maniera trasversale delle problematiche sulle quali conviene quanto prima sviluppare maggiore consapevolezza collettiva, ma anche e soprattutto per la città stessa di Treviso, intorpidita, per troppo tempo, da un certo tipo di fare cultura che ha preferito riempire le proprie tasche piuttosto che la testa e lo spirito dei suoi cittadini.

Valerio Veneruso

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Valerio Veneruso

Valerio Veneruso

Esploratore visivo nato a Napoli nel 1984. Si occupa, sia come artista che come curatore indipendente, dell’impatto delle immagini nella società contemporanea e di tutto ciò che è legato alla sperimentazione audiovideo. Tra le mostre recenti: la personale RUBEDODOOM –…

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