Tanti etti di spaghetti

Gli spaghetti sono un’immagine ricorrente nell’arte contemporanea. A cominciare da Rosenquist fino ad arrivare a Théo Mercier, l’ordine caotico della celeberrima pasta è diventato un vero e proprio simbolo creativo.

Gli spaghetti hanno la più semplice delle forme: una linea retta! O meglio, un segmento, dato che la loro lunghezza non è infinita. Spargendone a piene mani venticinque chili su una tela, spruzzando poi della pittura color grigio scuro e infine togliendoli uno a uno, Scott Reeder ha realizzato nel 2011 una grande opera (4,25 x 7,6 metri) esposta al MCA – Museum of Contemporary Art di Chicago. Con questa sorta di dripping alla rovescia l’artista prosegue la sua ironica produzione di “quadri pseudoseri” che si prefiggono di “criticare la critica d’arte” servendosi dell’ironia.
Quando invece sono cotti, gli spaghetti abbandonano la loro geometria essenziale per ingarbugliarsi nei labirinti della topologia: grovigli di curve che sembrano annodarsi e che preoccupano i meno esperti quando si accingono a raccoglierli per portarli alla bocca. Per ovviare a questa carenza genetica dei neofiti, Jacques Carelman ha inventato un “oggetto introvabile”: la forchetta per spaghetti, appunto, sul cui manico è montata una manovella a collo d’oca, che permette di mettere in rotazione i rebbi per un più semplice avvolgimento dei sottili fili di pastasciutta.

Claes Oldenburg & Coosje van Bruggen, Leaning Fork with Meatball and Spaghetti II, 1994. Photo Ellen Page Wilson

Claes Oldenburg & Coosje van Bruggen, Leaning Fork with Meatball and Spaghetti II, 1994. Photo Ellen Page Wilson

DA ROSENQUIST A OLDENBURG

Il piatto di spaghetti è una delle più elementari rappresentazioni di una configurazione caotica, di un processo che inizia da uno stato di estremo ordine – gli spaghetti sono tutti ben allineati nella mano di chi li getta nell’acqua bollente – e, con il continuo vortice nella pentola seguito dal rimescolamento nel sugo, assumono il tipico aspetto di un quadro astratto, sull’orlo dell’Informale, pur mantenendo uno stretto legame con la concreta veridicità dell’immagine. È forse per questo motivo che il primissimo piano di più portate di spaghetti al sugo è diventato un motivo ricorrente nella pittura di James Rosenquist. Da I Love You with My Ford del 1961 al celeberrimo quanto gigantesco F-111 (1964-65), che è stato uno dei primi “classici” della Pop Art. Non fosse altro che per le sue dimensioni da record: 3 metri di altezza per più di 26 metri di lunghezza, tanto da rivestire le pareti di un’intera sala (prima della Galleria di Leo Castelli e poi del MoMA di New York) e far sì che lo spettatore non sia “di fronte” all’opera bensì ne venga quasi ingurgitato, avvolto dalle immagini fino all’indigestione. La passione di Rosenquist per gli spaghetti al pomodoro è poi continuata, accrescendosi fin quasi a diventare un’ossessione, tanto che si ritrovano in molte altre opere: tele, litografie e manifesti, spesso suddividendo l’immagine in due parti, metà a colori e metà in bianco e nero, con il tradizionale equilibrio fra pittura accademica di soggetti poco accademici e oleografia quasi-fotografia che caratterizza la Pop Art delle origini. Che può anche ampliarsi in una terza dimensione e trasformarsi in scultura, con la monumentale Leaning Fork with Meatball and Spaghetti II che Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen hanno realizzato nel 1994. Su una forchetta alta quasi tre metri è infilzata una polpetta di carne intrisa di sugo e raggomitolata in mezzo agli spaghetti. Ovvero: come americanizzare una ricetta, un’immagine, una tradizione italiana stereotipata.

Paul McCarthy, Spaghetti Man, 1993

Paul McCarthy, Spaghetti Man, 1993

SPAGHETTI A TRE DIMENSIONI

Sempre nell’ambito delle tre dimensioni, ma con ben altre connotazioni artistiche, è Le solitaire, realizzato nel 2010 dal giovane artista francese Théo Mercier. Due occhi a palla, con le iridi azzurre, sporgono da un ammasso di spaghetti. La massa informe, come se fosse stata appena rovesciata da un immenso pentolone, prende una forma umana su una sedia. Lo sguardo, tra l’allucinato e lo sconsolato, non è quello di chi ha subìto un grezzo scherzo da caserma; è invece tenero ed empatico, suggerendo – con la somiglianza visiva e il biancore degli spaghetti – la qualità tattile del morbido pelo di un gigantesco orsacchiotto. Ed è proprio questa dinamica ambiguità a rendere la scultura così coinvolgente: è un mostro, sì, ma che non fa paura; semmai suscita un sorriso, se non proprio una risata. Un mostro che non può terrorizzare perché è sostanzialmente triste. O pensieroso. Non ti trapassa con occhiate truci ma si fa accarezzare dallo sguardo dello spettatore. E gli insinua il dubbio: forse anche tu sei così, “tu sei quello che mangi” – come sosteneva il filosofo Ludwig Feuerbach –, ogni tua cellula non è altro che il prodotto della trasformazione del cibo, ciò che ingurgiti è il carburante della tua vitalità. Ma anche, passando dalla fisiologia alla psicologia e avvicinandosi ad Anthelme Brillat-Savarin, “dimmi quello che mangi e ti dirò chi sei”.
Se ci si avvicina al grande Solitario e lo si sfiora con una mano, non si incontra la rigidità di spaghetti rinsecchiti bensì la reattiva elasticità di fili di silicone. Ancora una volta l’arte (e i suoi simboli) ci hanno tratti in inganno. Molto più esplicito è invece il tubo, sempre di plastica, che sostituisce il pene dell’uomo/coniglio di Paul McCarthy intitolato Spaghetti Man e realizzato nel 1993. La figura, a misura d’uomo e in piedi, indossa una maglia ed è nudo dalla cintola in giù, da dove si propaga un fallo/spaghetto lungo quasi 13 metri: il modo più sintetico per rappresentare i due istinti primordiali dell’uomo.

Aldo e Carlo Spinelli

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #39

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Carlo Spinelli

Carlo Spinelli

Laureato in Lettere Moderne e iscritto a Storia Antica, viaggia mangia e scrive in ordine sparso per ItaliaSquisita, Rolling Stone, La Cucina Italiana e Wired. Approfondendo l'antropologia dell'alimentazione nel contemporaneo mangiare, tra culture e geografie all'antitesi, ama in egual misura…

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