La crisi della moda rappresenta la crisi di un modello culturale
Per decenni la moda è stata un linguaggio di distinzione, un dispositivo identitario più che commerciale. Oggi questo impianto è collassato e la moda si è trasformata in un palcoscenico globale
La crisi della moda rappresenta la crisi di un modello culturale ormai superato, che oggi colpisce tutti i settori dell’immaginario contemporaneo: dall’arte al design, dalle industrie culturali ai linguaggi della creatività. È il paradigma dell’omologazione che si frantuma. Non regge più. E ciò che si sta sgretolando non è un mercato, ma una visione del mondo. C’è una parola che descrive con precisione chirurgica ciò che accade: lussazione. Uno spostamento fuori sede. È esattamente il destino del lusso: continuare a muoversi, ma in modo innaturale, distorto, doloroso. Perché non è più dove dovrebbe essere.
Il fenomeno della “lussazione”
Per decenni la moda è stata un linguaggio di distinzione, un dispositivo identitario più che commerciale. Un codice culturale. Ciò che indossavi non serviva a mostrarti, ma a dichiararti. Gli abiti erano narrazione, genealogia, tensione verso un altrove. Il lusso, in questo senso, era un privilegio simbolico: non gridava, sussurrava. Oggi questo impianto è collassato. La moda si è trasformata in un palcoscenico globale che funziona solo se genera visibilità immediata. La distinzione ha lasciato spazio all’esposizione. L’identità all’apparizione. La creatività alla performatività algoritmica. Entrata nel meccanismo delle piattaforme, la moda smette di essere un linguaggio e diventa un flusso: rapido, replicabile, immediatamente consumabile.

La crisi della moda
Il lusso, di conseguenza, si svuota e si disloca. Non è più un segno che individua, ma un dispositivo che uniforma. Nell’economia dell’attenzione, ciò che conta non è la qualità singolare di un oggetto, ma la sua riconoscibilità istantanea. La borsa che tutti fotografano. La sneaker che tutti condividono. L’outfit che deve “funzionare” prima ancora di essere interpretato. L’aura lascia il posto all’algoritmo. Ecco la lussazione: un lusso nato per distinguere che oggi produce omologazione. Un paradosso perfetto. L’oggetto iconico non segna più una differenza, ma certifica appartenenza all’immaginario mainstream. Non è status: è storytelling preconfezionato. Non crea identità: la sospende.

Il presente della moda
Questo slittamento è ancora più evidente nel rapporto con l’arte. Moda e arte dialogano da sempre, ma oggi ciò che le connette non è più la ricerca, bensì l’intercambiabilità. Le collaborazioni diventano lampi, collezioni usa-e-getta, oggetti pop che durano il tempo di un trend. Il museo si trasforma in set, la galleria in showroom, l’opera in sfondo. L’immaginario perde profondità e si appiattisce sul presente istantaneo. È un cambio culturale profondo, non una semplice mutazione del gusto. Viviamo in un’epoca in cui l’essere “speciali” passa paradossalmente attraverso la ripetizione. Siamo entrati nel regime della distinzione omologata: un desiderio di unicità costruito attraverso la riproduzione. Un ossimoro che l’industria ha cavalcato fino alla saturazione.
Il futuro della moda
Eppure, proprio nel momento in cui la moda sembra smarrire la sua funzione simbolica, sta emergendo una sensibilità nuova. Il desiderio di rallentare, di tornare al significato, alla materia, alla profondità. Di recuperare il gesto creativo che precede l’algoritmo, la visione che precede il trend, la cultura che precede il consumo. Forse è questa la vera rivoluzione possibile: ricollocare il lusso nella sua sede naturale, riallineare l’articolazione fuori posto. Fare della moda non un megafono dell’identico, ma un laboratorio del diverso. Rimettere al centro non la visibilità, ma la visione. Non la viralità, ma la verità di un gesto creativo. Solo allora la moda potrà tornare a parlare la lingua che ha dimenticato: quella dell’identità. E il lusso, finalmente, smetterà di mostrarsi per tornare a distinguere.
Angelo Argento
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