A Forlì una mostra indaga sugli autoritratti d’artista

Si raffigurano in primo piano, insieme ai santi o con i familiari, allo specchio o elegantissimi e imbellettati. Ma anche in compagnia di animali, o ancora nudi, immersi nell’acqua, con l’armatura o con il liuto. Sono gli artisti che ritraggono se stessi: l’indagine sul tema dell’autoritratto va in scena a Forlì

Ancora una volta la mostra al Museo Civico San Domenico di Forlì è significativa, e non poteva essere altrimenti, visto che Nello specchio di Narciso. Il ritratto dell’artista è la ventesima puntata di una storia espositiva iniziata nel 2005 e che ha proposto rassegne memorabili, alcune addirittura premiate con l’oscar del Global Fine Art Awards. A sviscerare la tematica dei ritratti degli artisti, i curatori Paola Refice, Cristina Acidini, Fernando Mazzocca e Francesco Parisi, con la consueta accurata regia di Gianfranco Brunelli, hanno convocato circa 250 opere, dagli affreschi staccati alle maschere antiche, dai codici miniati ai dipinti da cavalletto, dalle sculture alle incisioni, in un percorso cronologico che prende il via nei tempi antichi e arriva ai giorni nostri.

Jacek Malczewski, Su una sola corda, 1908, Varsavia, National Museum
Jacek Malczewski, Su una sola corda, 1908, Varsavia, National Museum

Narciso, la Prudenza, la Vanitas: premesse della nascita di un genere

Per la verità la prima sezione sembra quasi una mostra autonoma e costituisce una lunga premessa della nascita del genere del ritratto. Protagonista delle opere ospitate nello spazio dell’ex chiesa è infatti Narciso, notissimo personaggio della mitologia greca e romana che viene evocato come simbolo di auto-rispecchiamento dell’artista: lo sosteneva già Leon Battista Alberti che per primo, nel De Pictura del 1435, teorizzò le arti visive come arti speculative e suggellò la consapevolezza di sé dell’artista. “Per Alberti”, spiega Brunelli, “Narciso è il fiore della pittura, intuisce che la bellezza non si può possedere, si può solo contemplare”. Spiccano gli affreschi pompeiani, il Narciso alla fonte di Tintoretto e quello di Gyula Benczùr del 1881, ma anche un grande arazzo di Corrado Cagli (1971). Al piano terra del vasto complesso espositivo il racconto attraversa poi l’Antichità con l’esposizione di emblemi maschere (ve ne è addirittura una del VI secolo a.C.), quindi di una serie di specchi, unico strumento attraverso cui le persone, artisti compresi, potevano osservare la propria immagine prima dell’avvento della fotografia. Nelle miniature e nei rilievi medievali fanno invece capolino alcune raffigurazioni di artisti al lavoro: non veri e propri autoritratti, ma primi, timidi documenti del lungo processo di affrancamento del mestiere creativo dalla sfera delle arti meccaniche a quella delle arti liberali. Fortemente collegati all’oggetto specchio sono inoltre due approfondimenti su altrettante allegorie: la Prudenza, virtù che si scruta allo specchio meditando scelte assennate (memorabile il tondo di Donato Creti, 1719-21), e la Vanitas, a partire dalla Venere di Tiziano, modello di bellezza assoluta, fino alle riflessioni sulla transitorietà delle gentili fattezze, come dimostra il terrificante Memento mori dipinto da un anonimo artista Bergamasco nel Settecento.

Autoritratto come affermazione dell’artista

Belli o brutti, dal Quattrocento gli artisti cominciarono a immortalarsi nelle loro opere: si giunge così al cuore della mostra che in primis raduna dipinti in cui lo stesso pittore partecipa alla scena narrato, e ne sono esempi La presentazione al Tempio di Giovanni Bellini e il calco della Pietà Bandini di Michelangelo. Di lì a poco le effigi diventano gli unici soggetti della composizione, veri e propri autoritratti: “attestazione individuale dell’artista come figura professionale affermata”, scrive Brunelli in catalogo. Sofonisba Anguissola è intenta a suonare la spinetta – “le artiste donne si raffigurano con molti elementi di contorno perché devono sempre dimostrare qualcosa di più del loro talento artistico” commenta Cristina Acidini – Lorenzo Lotto si staglia cu un muro con rilievi antichi, Federico Barocci sceglie il primo piano. Con il passare dei secoli cambiano gli stili, i modelli e i messaggi, dall’autoritratto come intellettuale gentiluomo alla serialità ossessiva di Rembrandt, dalla teatralità barocca (tanti i casi di autoritratti nella testa mozzata di Oloferne da Giuditta) all’autocelebrazione di Canova. Seguendo il filo della storia, l’immagine di sé si rapporta agli eventi storici, poi fa capolino il soggettivismo del Novecento.

Il ritratto per i contemporanei

Nell’infinita carrellata di volti ci hanno colpiti l’autoritratto di Hayez davanti a una gabbia con una tigre e un leone, ovviamente l’Autosmorfia di Giacomo Balla –è l’immagine guida della mostra – e l’Autoritratto nudo di Giorgio De Chirico. L’ultima sala raccoglie le riflessioni del secondo Novecento e della contemporaneità, con Chuck Close, Marina Abramovich e Bill Viola, ma il finale torna a Canova: attorno alla sua magnifica Ebe, scultura esposta in via permanente al San Domenico, una serie di specchi mostra la sua e la nostra immagine, entrambe moltiplicate all’infinito. Un’ambientazione ideale per un selfie: ci possiamo osservare, ammirare, fotografare, ma attenzione a non diventare vittime del nostro narcisismo, come ci insegna il mito.

Marta Santacatterina

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Marta Santacatterina

Marta Santacatterina

Giornalista pubblicista e dottore di ricerca in Storia dell'arte, collabora con varie testate dei settori arte e food, ricoprendo anche mansioni di caporedattrice. Scrive per “Artribune” fin dalla prima uscita della rivista, nel 2011. Lavora tanto, troppo, eppure trova sempre…

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