Arte e realtà. La divaricazione tra il mondo della cultura e la guerra a Gaza
Serve un segnale forte da parte del mondo della cultura e dell’arte in contrapposizione alla guerra nella Striscia di Gaza. Fermare tutto e uscire dal dualismo cinismo/edonismo che ha contrassegnato gli ultimi venti anni

“Cosa poteva succedere se non questo? Undici settimane di blocco degli aiuti umanitari, due milioni di palestinesi che hanno fame, i forni chiusi, le pance vuote. Come poteva andare diversamente il giorno uno del nuovo sistema, se prima a Gaza c’erano quattrocento punti dove prendere il pane e ora soltanto due? Per giunta controllati dall’esercito israeliano e gestiti da una controversa fondazione americana dove i dirigenti si dimettono ancor prima di entrare in carica. Due centri di distribuzione per due milioni di persone. È stato il caos. E non poteva essere altrimenti. Donne, vecchi, bambini, padri di famiglie affamate, madri di figli malnutriti, a migliaia sono arrivati a piedi dopo chilometri nella polvere e hanno preso d’assalto il sito allestito nel quartiere Tal al Sultan, zona di Rafah. Disarmati, spinti dai morsi dello stomaco. «Di più, eravamo centinaia di migliaia», dice chi, nella bolgia, ha tentato fino all’ultimo di afferrare lo scatolone che contiene, sì e no, due giorni di sopravvivenza”
(Fabio Tonacci, “la Repubblica”, 28 maggio 2025).
L’impotenza nei confronti della guerra
Dopo l’articolo della settimana scorsa, ho parlato di persona, via messaggio e per telefono con amici e amiche artiste che condividono il medesimo disagio: “mi sento impotente”, è la frase che più ricorre. L’impotenza indica la sensazione che nulla di ciò che possiamo dire e fare serva a fermare ciò che sta accadendo.
Credo che questa situazione metta davvero, e totalmente, in discussione il rapporto (o l’assenza di rapporto) tra arte e realtà: rappresenta cioè un punto di non ritorno, un discrimine. Mi spiego. Da ora in poi, non sarà più possibile – o, quantomeno, sarà molto molto più difficile – praticare soluzioni autoassolutorie, ripiegarsi nella dimensione dell’operina politica o in una qualche declinazione più o meno pelosa di ‘artivismo’ sperando che questo basti a esaurire, o meglio declinare, ogni responsabilità.
Arte, realtà e “artivismo”
La sperequazione tra l’enormità di ciò a cui assistiamo quotidianamente e la capacità disarmante dell’intero mondo dell’arte di fare-come-se-nulla-fosse, affidando tutto lo sdegno a un post sui social, a più post sui social, o ai lenzuoli bianchi appesi alle facciate dei palazzi, è tale da chiarire molto bene quella che è la vera dissociazione alla base.
Una dissociazione che ha radici lontane e profonde, che affondano nel riflusso degli Anni Ottanta, nel nuovo cinismo/edonismo inaugurato quarant’anni fa, nell’esaltazione dell’individualismo e nella sfiducia coltivata accuratamente nei confronti dell’azione politica diretta. Da allora, più proficuo è stato approfondire i cosiddetti ‘temi’ all’interno del ristretto recinto dell’arte, al riparo per così dire di un sistema tutto sommato indifferente alle istanze apparentemente sollevate, a patto che esse potessero essere tradotte e veicolate in merci facilmente scambiabili e monetizzabili.
La divaricazione tra arte, mondo, cultura e società
Il prezzo principale di tutto ciò è stato un processo di progressiva divaricazione tra arte e mondo, tra cultura e società: nel contesto di un evento artistico x, infatti, gli appartenenti a quel settore confermeranno reciprocamente la loro identità orgogliosamente progressista, antirazzista, all’occorrenza pacifista, e tanto basta – mentre, al di fuori, tutto brucia.
Ora, naturalmente, la domanda che tutti si fanno esplicitamente o implicitamente è sempre la stessa: che fare?
A mio parere, dal momento che è evidente come l’opera, la mostra, il dibattito, l’evento su Gaza sono assolutamente inutili e oggettivamente offensive (come ho già detto, rappresentano al massimo una ‘decorazione’ della nostra paralisi e del nostro silenzio…), l’unica opzione sensata mi sembra: fermare tutto.
Fermare tutto per fermare la guerra
Fermare tutto significa fermare ogni attività annessa e connessa intanto al mondo dell’arte contemporanea a livello nazionale – fino a quando almeno non verranno ripristinati sul serio, dopo quasi tre mesi, gli aiuti umanitari. Sulla durata di questo stop, questo dipende e dipenderà eventualmente dal buon cuore di chi attivamente compone e dà vita a questo mondo (questo ‘sistema’). Ovviamente si dirà: ma non serve a niente, ma non si può fare, ma che significa, e allora questo che impatto ha, ma dai, e comunque non importerebbe a nessuno… Benissimo. Intanto, comunque, è una cosa. In secondo luogo, ciò che non si può fare ancora, ciò che non si può fare più, è attendere.
“Ottomila pacchi sono stati distribuiti, ognuno sufficiente per 5,5 persone per 3,5 giorni, in tutto 462 mila pasti”, comunica la Gaza Humanitarian Foundation. “Nel pomeriggio il volume delle persone era così alto che il nostro team si è dovuto ritirare per permettere a un piccolo gruppo di prendere gli aiuti e disperdersi». Minimizzano quel che non si può minimizzare. Per la confusione ieri la distribuzione è stata sospesa. Ci prova anche l’esercito a ridimensionare, garantendo che i siti diventeranno quattro e che oggi tutto funzionerà regolarmente. “Scene strazianti, l’Onu non è coinvolta”, commenta il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. “Le sue critiche sono il colmo dell’ipocrisia”, gli risponde il portavoce del dipartimento di Stato americano, Tammy Bruce. Si litiga sulla fame di milioni di palestinesi. Stamani alle 9 il centro di Rafah riapre. Fuori dalla Striscia migliaia di tonnellate di cibo rimangono inutilizzate sui tir fermi” (ibidem).
Christian Caliandro
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