Al Padiglione Bosnia a Venezia hanno censurato l’opera di Šejla Kamerić

La più nota artista bosniaca era stata invitata a rappresentare il Padiglione della Bosnia Erzegovina alla Biennale di Venezia. Ma poi il progetto è stato rifiutato in favore un’alternativa meno politica

E cosa fa l’arte intanto? Accetta passivamente la narrazione dominate, diventando inoffensiva e politically correct, o rompe il muro di menzogne e parole belliche che strutturano l’immaginario greve, collettivo, fondato sull’unica lingua della paura?  E cosa fa l’artista? Sceglie di essere una banana troppo matura appiccicata al muro o un coyote selvaggio, libero, decimato dai colonizzatori e sacro agli indiani, che ha convissuto con Joseph Beuys per tre giorni alla Renè Block Gallery di New York nel 1974? Pier Paolo Pasolini nel film “La ricotta”, mostra il giornalista che intervista Orson Welles come fosse un cameriere. Con notes e penna, questi inchinato reverenzialmente, sembra prendere l’ordine al tavolo. Welles conclude lapidario la conversazione: “lei non ha capito niente perché è un uomo medio. L’uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista”. 

La vicenda di Šejla Kamerić alla Biennale

L’uomo medio, affermiamo oggi con Pasolini, è colui che obbedisce e crede al dominio della cancel culture, degli orsetti rosa, della “vostra sicurezza” e “dell’armiamoci e partite”.  Pur di compiacere il sistema e “di esserci”, anche molti artisti si adeguano alla sistematica falsificazione della realtà, di un mondo in bilico tra Mulino Bianco e guerra nucleare, adottando buonismo e accettazione. Intanto i governi occidentali investono miliardi in armi depauperando sanità, cultura, educazione. La cultura della morte, in nome della “sicurezza”, prende il posto dell’arte, della cura, dell’intrinseca spiritualità della vita, creando eserciti di giovanissimi depressi impasticcati e annichiliti. I potenti sono sempre più indifferenti ai massacri che, attraverso la propaganda, vengono legittimati diventando via via accettabili e persino auspicabili.
Šejla Kamerić, l’artista bosniaca più nota al mondo per aver realizzato Bosnian Girl, è stata inizialmente invitata a rappresentare il Padiglione della Bosnia Erzegovina alla 60a Biennale di Venezia 2024. Tuttavia, all’ultimo momento, la sua opera è stata censurata, bandita, esclusa. Il governo nazionalista bosniaco si è opposto alla sua candidatura e ha scelto l’autore di inoffensivi ordinari monumenti urbani, che rispondono ai bisogni della retorica ufficiale. Tutto ciò, in seguito alla annunciata discussione dell’ingresso della Bosnia e Erzegovina in una Unione Europea sempre più esaltata e guerrafondaia. Per questa ragione il suo lavoro, intitolato “Cease”, Cessate, non sarà in biennale ma viene comunque presentato nel cuore di Venezia, in Campo Santo Stefano, con un’opera folgorante di denuncia, supportata da Ars Aevi, Museo d’Arte Contemporanea di Sarajevo e curata da Giulia Foscari

Šejla Kamerić, Liberty, 2015. Photo Erika Pisa
Šejla Kamerić, Liberty, 2015. Photo Erika Pisa

L’opera censurata a Venezia

Si tratta di una bandiera bianca a mezz’asta che sembra ridotta a brandelli da un branco di lupi assetati di sangue. Il vento non la attraversa, non la sfiora, non la muove. È rigida come un corpo morto in un sudario. Sopravvissuta all’assedio di Sarajevo, Kameric annuncia oggi la morte di ogni idea di pace, la negazione di ogni trattativa da parte di governi polarizzanti che finanziano l’industria della morte, controllano i flussi economici e militarizzano la società intera. Come può un’artista, che ha vissuto il tremore della devastazione psico-fisica della guerra, non opporsi con tutte le sue forze al micidiale progetto di un conflitto senza ritorno? L’opera è stata da lei ideata poco prima che Papa Francesco affermasse “il coraggio della bandiera bianca”, con corale disappunto della leadership mondiale. L’indomani del crollo delle Twin Towers, Marina Abramovic, in sella a un cavallo, portava una bandiera bianca come simbolo di vero eroismo. Fabio Mauri, l’anno successivo, ha installato, con dei tubi innocenti, una bandiera bianca chiedendosi cosa avrebbe fatto di fronte all’Apocalisse. “È una riflessione tra le sproporzioni del mondo, mondo breve, in cui l’uomo vive”, ha scritto. “Nasce la decisione ferma di seguire poche cose, fuori epoca, che riguardano i presenti e chi c’è già stato. (…) Questa mia è una resa formale. Una bandiera bianca. Una certa misura di resa può scoprire forse alternative inedite di pace”. L’arte deve opporsi urgentemente a quella che Rudolf Steiner definisce guerra come “reincarnazione delle idee”. L’arte è predisposizione al bene, consapevole della propria forza può creare e disegnare nuove innumerevoli alternative al massacro. Ma questo solo se ritroverà la propria selvaggia animalità che le permetterà di non finire in una cassetta di banane in vendita all’ortofrutta. 

Manuela Gandini

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Manuela Gandini

Manuela Gandini

Manuela Gandini è critica d’arte contemporanea, curatrice e docente alla NABA di Milano. Scrive per “La Stampa” e “Il Manifesto” ed è responsabile della sezione Forme della rivista “Machina”. E’ autrice del volume “Ileana Sonnabend. The queen of art” (Castelvecchi…

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