Il Museo della Cultura Italiana: riqualificazione o cattedrale nel deserto? Al privato la scelta

L’annuncio del progetto del Museo della Cultura Italiana a Bologna riapre un dilemma che si ripete ogni qualvolta i progetti culturali si associano a più ampie operazioni edilizie e d’investimento su un territorio

È di qualche giorno fa la notizia che Tremagi, holding del settore dell’energia, ha avviato un progetto di riqualificazione territoriale attraverso la cultura nel quartiere bolognese di Bolognina. Un investimento privato, del valore tra i 50 e i 100 milioni di euro, per la realizzazione di un nuovo spazio di circa 12mila metri quadrati, con spazi espositivi, auditorium, ristoranti, uffici, e un albergo/foresteria, la cui gestione sarà affidata ad una Fondazione che al momento prevede la partecipazione del Ministero della Cultura, della Regione Emilia Romagna, del Comune di Bologna, e della stessa Tremagi. Un’iniziativa che, sulla carta, dovrebbe rilevarsi di notevole importanza, soprattutto per il quartiere di Bolognina, che non rappresenta sicuramente il quartiere più ambito della città. Pur plaudendo questa iniziativa, è importante fare in modo che questo intervento non si traduca in uno dei tantissimi investimenti immobiliari in cui la componente culturale, che in questo caso ha il nome di Museo della Cultura Italiana, non rivesta soltanto una dimensione comunicativa.

Torre Garisenda a Bologna via italia.it
Torre Garisenda a Bologna via italia.it

La doppia faccia della riqualificazione urbana

L’operazione segue infatti schemi che, nel novero del cosiddetto fenomeno della riqualificazione urbana, sono ben noti. La riconversione di edifici esistenti o la costruzione di nuovi edifici, in aree socialmente delicate, e con valori immobiliari più bassi rispetto ad altre, è infatti uno dei punti cardine di questo fenomeno. È il punto di partenza che permette di unire i legittimi interessi di investimento e gli altrettanto legittimi interessi di natura sociale. L’errore che troppo spesso è stato commesso, tuttavia, è stato quello di conferire alla cultura un ruolo di “faro”, concentrando sulla dimensione culturale risorse in quota investimenti (la costruzione di spazi polifunzionali, aree espostivi, auditorium) senza tuttavia prevedere lo stanziamento di risorse volte a garantire un’operatività continuativa in ambito culturale. Detto in altri termini: se per la quota culturale si stanziano i fondi per costruire un auditorium, ci devono essere ancora più fondi per riempire quell’auditorium di contenuti. Da quanto si apprende dalla stampa, in questo caso la divisione dei compiti pare essere razionale: il privato investe nell’edificio e la fondazione, che prevede la partecipazione anche di soggetti pubblici, ha poi il compito di ricevere stanziamenti che vadano poi a garantire uno sviluppo culturale concreto e sensibile nel territorio. 

Street Art su una serranda alla Bolognina Il Museo della Cultura Italiana: riqualificazione o cattedrale nel deserto? Al privato la scelta
Street Art su una serranda alla Bolognina

Per funzionare, l’investimento culturale dev’essere continuativo

È però importante che il privato, in questo senso, sia pienamente consapevole che, per essere realmente efficiente, l’investimento culturale deve essere anche efficace. Condizione che fuor dai tecnicismi può essere più o meno espressa in questo modo: l’investimento immobiliare in processi di riqualificazione urbana diviene redditizio se la componente culturale, in un intervallo di tempo che varia dai cinque ai quindici anni, riesce davvero a generare un cambiamento nell’area in cui l’investimento viene condotto. In quel momento, a fronte dell’investimento, il valore immobiliare inizia a conoscere un apprezzamento, e l’investimento diviene redditizio. 
Senza questo passaggio, è veramente difficile che un quartiere, da solo, inizi ad essere più attrattivo. Per questo si chiamano progetti complessi: perché non basta costruire un “museo”, serve altresì l’impegno dei poteri pubblici, che deve tradursi in mobilità, strade, sicurezza, illuminazione, scuole e servizi di base. E serve poi la capacità di rendere il quartiere attrattivo, con la creazione di iniziative capaci di coinvolgere attivamente la cittadinanza, riducendo così le distanze sociali che, in quartieri delicati, si percepiscono ancor prima di misurarle.

Il Museo della Cultura Italiana potrà riqualificare Bolognina?

È quindi interesse stesso del privato garantire che la componente culturale concorra davvero alla creazione di condizioni che permettano di avviare processi trasformativi all’interno dell’area territoriale. Questo, almeno, se si vuole davvero avviare un processo di questo tipo. Del resto il privato in questione può anche decidere che sia sufficiente creare un intervento che abbia delle valenze più di natura contabile che economica: suo l’investimento, suoi gli obiettivi. Sarebbe forse un errore sul profilo strategico, ma fin quando i fondi sono propri, il privato ha per fortuna la possibilità di investirli come vuole (anche se quest’affermazione non sempre è vera quanto dovrebbe). Di certo è che la differenza tra le cattedrali nel deserto e i processi di riqualificazione urbana sta proprio in ciò che accade fuori dalla cattedrale. Ed è quello a cui bisognerebbe guardare con maggiore attenzione. 

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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