Come va l’arte italiana negli Stati Uniti? Intervista al curatore Simone Ciglia

Con un passato al Maxxi di Roma, oggi Ciglia vive a Portland, in Oregon, pur continuando a lavorare anche in Italia. I progetti, la pratica e uno sguardo sull’arte italiana negli Stati Uniti

Simone Ciglia (Pescara, 1982), dopo aver conseguito un Dottorato di Ricerca in Storia dell’Arte Contemporanea alla Sapienza, essere stato per diversi anni assistente ricercatore presso il MAXXI di Roma e aver collaborato con Treccani e Zanichelli, risiede attualmente a Portland ed è Career Instructor presso la University of Oregon. Continua a scrivere per diverse testate specialistiche e a lavorare come curatore freelance in stretta relazione con la scena dell’arte italiana. Le sue aree di ricerca si concentrano sugli spazi marginali nelle pratiche artistiche contemporanee, sull’intersezione di ambiti quali l’agricoltura, l’artigianato e gli impulsi utopici/distopici.

Stefano Arienti, Retina, 2018-2019, MAXXI, Roma
Stefano Arienti, Retina, 2018-2019, MAXXI, Roma

Nella recente intervista ai fratelli Gianni e Giuseppe Garrera, si accenna alla bellissima mostra da te curata La vita è un’altra cosa, chiusa qualche settimana fa presso Fondazione La Rocca a Pescara. Da cosa nasce il desiderio di raccontare una possibile storia dell’arte attraverso gli effimera?
È stato un privilegio, oltre che un grande piacere, poter lavorare con la collezione di Gianni e Giuseppe Garrera: i diversi materiali raccolti nel corso degli anni – manifesti, volantini, cartoline, poster, libri, dischi – descrivono davvero una contronarrazione dell’arte che ne decentra alcuni assunti come l’inviolabilità dell’opera, l’aura dell’autorialità, la dittatura del mercato, attraverso una deriva verso il margine, lo scarto, persino l’errore. Questa dislocazione apre nuove letture critiche e potenziali di trasformazione per l’arte, innestata con istanze diverse (come il femminismo, l’ecologia, l’utopia). 

In che modo li hai messi in relazione con lo spazio espositivo e la città?
Riverberando il luogo dell’esposizione – la città di Pescara – la prima galleria della Fondazione La Rocca era interamente dedicata a Joseph Beuys, con la documentazione delle stazioni del lavoro condotto in Abruzzo all’intersezione fra arte, agricoltura ed ecologia, grazie al supporto di Lucrezia De Domizio Durini. Nella galleria seguente, che presenta uno spazio più articolato, i materiali erano sostanzialmente ordinati per media: dai manifesti (come le affissioni pittoriche di Daniel Buren), ai volantini (Ketty La Rocca, Cloti Ricciardi), ai libri (quelli di Carla Accardi e Daniela Comani), alle opere intermedia (Yoko Ono); una sottosezione tematica intersecava questi media con l’arte femminista (con lavori di Mirella Bentivoglio e Claire Fontaine). 

Ritratto del curatore Simone Ciglia
Ritratto del curatore Simone Ciglia

Da tre anni hai lasciato l’Italia trasferendoti negli Stati Uniti, a Portland per l’esattezza. Puoi già avanzare un bilancio di questo cambiamento professionale?
Nonostante il mio trasferimento negli Stati Uniti sia avvenuto durante il periodo limitante della pandemia, il bilancio è assolutamente positivo. Dal punto di vista lavorativo, mi trovo ora a vivere una situazione molto stimolante, di apertura e cambio di prospettiva, per molti versi liberatoria. Mi sento in sintonia con molti fondamenti del sistema americano – il rispetto e l’etica del lavoro, la meritocrazia e la possibilità di sviluppo professionale – ma riconosco le grandi disuguaglianze che lo minano. La flessibilità della posizione accademica mi consente, inoltre, di poter sviluppare progetti anche in Italia, muovendomi fra i due mondi. Su questa costante oscillazione sto riorientando la mia pratica.    

Senza fare retorica, che tipo di peso reputi abbia la presenza dell’arte italiana all’estero, sia a livello storico-artistico, che espositivo e di mercato?
Questa vexata quaestio ha acquisito una risonanza più acutamente personale dopo il trasferimento all’estero. Dal mio nuovo punto di osservazione, devo purtroppo ribadire la marginalità della produzione artistica italiana contemporanea negli Stati Uniti, a entrambi i livelli menzionati. Per quanto riguarda quello storico-artistico, la conoscenza si limita generalmente a grandi figure come quelle di Burri, Fontana e Manzoni, tendenze quali l’Arte Povera e la Transavanguardia, più alcune personalità isolate (come ad esempio Maurizio Cattelan). Lo stesso vale per esposizione e mercato, che tende a privilegiare i (non molti) artisti italiani inseriti nel sistema americano. L’immagine del nostro paese è ancora inevitabilmente legata al passato, archeologico e moderno, mentre resistono le tradizionali eccellenze legate a cibo, moda e motori. 

Qualche dato che ci faccia ben sperare?
Ci sono tuttavia segnali incoraggianti: istituzioni come il Center for Modern Italian Art (CIMA) e Magazzino stanno ultimamente conducendo un ottimo lavoro nella diffusione della conoscenza dell’arte italiana moderna e contemporanea, come pure diversi studiosi a livello accademico (come Raffaele Bedarida). Anche il progetto Italian Council del Ministero della cultura sta contribuendo in questo senso, ma il lavoro da fare su questo fronte è ancora molto. È in questa direzione che spero di poter dare anche il mio contributo. Un’azione concertata del cosiddetto sistema dell’arte italiano è sicuramente necessaria come, allo stesso tempo, liberarsi da visioni nazionalistiche per proiettare sullo scenario globale l’arte prodotta nel nostro paese e comprendere come quest’ultimo sia, per molti versi, un laboratorio – come testimoniano fenomeni politici e culturali, ad esempio il recente interesse internazionale per figure come Carla Lonzi o il pensiero dell’operaismo. 

Hai insegnato diversi anni nell’alta formazione artistica in Italia e ora sei Career Instructor presso la University of Oregon. Quali le differenze più evidenti tra i sistemi di formazione di questi due paesi?
Nella pratica didattica cerco d’integrare i due modelli, nel tentativo di bilanciare i rispettivi punti di forza e debolezza. Per sintetizzare, del sistema italiano apprezzo la solidità dei fondamenti disciplinari, il rigore filologico, la contestualizzazione nella dimensione storica e l’ampiezza nozionistica (intesa in senso non deteriore); di quello americano, l’impianto dialettico a livello teoretico (concentrato sui dibattiti), l’impulso al pensiero critico, l’apertura metodologica, l’enfasi sulla dimensione esperienziale dell’apprendimento e le risorse a disposizione (nel campus della mia università è presente, ad esempio, il Jordan Schnitzer Museum of Art, uno straordinario strumento didattico). Contesti culturali diversi e svariati sono fattori che devono essere considerati nell’equazione, soprattutto quelli relativi ad accesso e costi all’istruzione. La situazione globale, tuttavia, invita a uno scambio produttivo fra le due sponde e il mio desiderio è d’inserirmi in questa rotta.  

Marta Silvi

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Marta Silvi

Marta Silvi

Marta Silvi (Roma, 1980) è storica dell’arte e curatrice indipendente, di base a Roma. Laureata in Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Università “La Sapienza” di Roma, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Storia delle Arti Visive e dello Spettacolo presso…

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