Pitali, orinatoi e sublimi schifezze

Dal celebre “Fountain” di Marcel Duchamp al “Paesaggio astratto/Merda” di Osvaldo Licini, l’interesse degli artisti verso gli oggetti e i materiali “bassi” è un dato di fatto. Il filosofo Marco Senaldi si chiede perché.

L’arte contemporanea forse verrà cancellata in toto – ma, se ne rimarrà memoria, sarà ricordata soprattutto per una cosa: per la sua capacità indiscutibile di unire l’alto e il basso, l’ideale e il reale, il sublime impalpabile e il totalmente volgare. Non a caso, viene inaugurata dalla vicenda, ormai secolare, di un orinatoio (intitolato Fountain, 1917) che avrebbe dovuto essere esposto come scultura e che invece venne rifiutato perché giudicato “indecente” proprio da una commissione che si era autonominata “Società degli artisti indipendenti”. Se per taluni Fountain mancava di originalità e di buon gusto, per altri rappresentava un pezzo non solo artistico, ma anche dotato di una certa “bellezza”, quasi un “Buddha delle sale da bagno”. Come è noto, Marcel Duchamp, che lo aveva presentato in forma pseudonima (sotto le mentite spoglie di R. Mutt), e che era Commissario della Society of Independent Artists, rassegnò le dimissioni dopo questo rifiuto, dato che la (presunta) “indipendenza” della Società di cui faceva parte, cioè la libertà da ogni regola, gusto o appartenenza artistica, era stata messa alla berlina e chiaramente smascherata.
Fin qui la storia raccontata da tutti i manuali – senonché recentemente ha iniziato a circolare la voce, sempre più insistente, che Duchamp non sia l’autore dell’opera-beffa, ma abbia rubato l’idea a un personaggio anche più radicale di lui, la baronessa Elsa von Freytag-Loringhoven. Nella contro-vulgata giocano molti indizi: il fatto che la firma sull’orinatoio non sia di Duchamp; il fatto che lui stesso parli di un’“amica” che avrebbe consegnato l’oggetto alla Society per esporlo; il fatto che Elsa sia l’autrice o coautrice di almeno un ready-made; ma soprattutto il fatto che sia stata dimenticata e solo di recente riscoperta (grazie alla monografia di Irene Gammel, 2002, che la lungimirante editoria italiana si ostina a ignorare…), morta, per giunta, sola e in miseria. Non è che Duchamp abbia goduto di una fama istantanea nemmeno lui, se si pensa che ebbe la sua prima retrospettiva all’età di 76 anni – ma, in tempi di #metoo, la tentazione di smascherare uno smascheratore (maschio) era troppo ghiotta per passare inosservata.

PROVOCAZIONI E FAKE NEWS

Tutto bene, anzi benissimo … se non che quest’affascinante ipotesi è una fake news. Lo dimostra con dovizia di particolari uno degli studiosi duchampiani più informati al mondo, cioè Stefan Banz, autore di Marcel Duchamp: Richard Mutt’s Fountain (Verlag fur Moderne Kunst / Les presses du réel / Les éditions KMD, 2019), e lo fa oltre ogni ragionevole dubbio – a partire da dettagli ineffabili, come l’indirizzo sull’etichetta di Fountain nella foto di Stieglitz, che era effettivamente quello di Louise Norton, fino a solide testimonianze di prima mano prese dai giornali dell’epoca. Il certosino lavoro di Banz è ammirevole e non necessita di altri commenti: io aggiungerei solo che, se davvero Duchamp si fosse appropriato di un’opera della “baronessa”, sarebbe difficile spiegare perché costei (che, come ricorda Banz, non temeva gli scandali) non abbia reagito, e anzi si sia prestata a collaborare con Duchamp per la realizzazione del film (perduto) Elsa shaving her pubic hair, nel 1921…
Tutto quello che si può dire è che a quei tempi, a loro modo eroici, certe provocazioni erano nell’aria. Ne dà conto Claudia Salaris nel suo fantastico libro Alla festa della rivoluzione. Artisti libertari con D’Annunzio a Fiume (Il Mulino, 2002, nuova ed. 2019), che fa strage di luoghi comuni e ci consegna l’avventura fiumana sotto un punto di vista inedito e rivoluzionario. Tra i mille episodi evocati, spicca quello in cui il mitico Guido Keller, barone aviatore sodale di Baracca, intrepido nudista e fiumano della prima ora, aveva pensato bene di “lanciare” dal proprio aereo non un orinatoio, ma un più prosaico pitale nientemeno che sulla sede del Parlamento romano, nel novembre del 1920, in segno di spregio per la debolezza dimostrata dai politici italiani alla Conferenza di pace del 1919. Keller aveva agito di certo all’insaputa della beffa duchampiana, ma il suo non è forse uno sberleffo di analogo tenore? E che dire di questo Paesaggio astratto/Merda (1950) di Osvaldo Licini, che sembra presagire di un decennio la “merda d’artista” di Piero Manzoni?

Marco Senaldi

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #53

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Marco Senaldi

Marco Senaldi

Marco Senaldi, PhD, filosofo, curatore e teorico d’arte contemporanea, ha insegnato in varie istituzioni accademiche tra cui Università di Milano Bicocca, IULM di Milano, FMAV di Modena. È docente di Teoria e metodo dei Media presso Accademia di Brera, Milano…

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