Case d’artista #3. Ritratto di Chantal Akerman

Terzo appuntamento con la saga dedicata alla dialettica artista-casa. Stavolta tocca alla regista Chantal Akerman, per la quale la dimora è un luogo di solitudine e irrequietezza.

È il 1965, in un piccolo cinema di Bruxelles proiettano Pierrot le fou di Jean-Luc Godard. Tra il pubblico c’è una ragazza di quindici anni. Non conosce Godard e non conosce il cinema d’autore, non ha idea di cosa farà da grande, forse diventerà una scrittrice, forse no. Il film termina, le persone escono dalla sala, riprendono le vite di sempre. Qualcosa di piccolo, di impercettibile è accaduto: la ragazza ha scelto. Diventerà una regista. Per il resto della vita cercherà in ogni film lo stesso incanto che ha provato guardando Pierrot le fou. Quella ragazza è Chantal Akerman.
Tre anni dopo realizza il suo primo cortometraggio, Saute ma ville, in cui riprende se stessa mentre, confinata nello spazio ristretto di una cucina, compie alcuni gesti in maniera ossessiva – tira fuori tutte le pentole dalla credenza, le rimette a posto, pulisce il pavimento, mette in disordine e poi riordina ancora. C’è già in quei dodici minuti il fuoco centrale di tutti i film della Akerman: l’ossessione per lo spazio domestico. La casa è un luogo che ripara ma è anche un luogo che annienta, sembra suggerirci la regista. Nella casa mi nascondo, nella casa scompaio. Gli spazi non sono metaforici, la macchina da presa ce li offre nella loro concreta evidenza, con un alfabeto essenziale fatto di inquadrature fisse e lunghi piani sequenza. Una stanza non è altro che una stanza e resiste alla lenta processione del tempo (La chambre). Sono i corpi a essere irrequieti, con passo da fantasmi spostano mobili, abbozzano lettere che poi lasciano incompiute (Je, tu, il, elle), guardano fuori dalla finestra aspettando solo che la notte passi (si veda Toute une nuit, poema visivo in cui sembrano prendere vita i quadri di Hopper). C’è sempre una parete a dividere i personaggi, magari il vetro di una doccia che scontorna le figure (La captive), o il tavolo di un bar, un muro, una strada, una siepe.
Ci si sfiora solo per brevi momenti, in rapporti che non hanno nulla di erotico, in abbracci che vorrebbero annullare ogni distanza. Ognuno rimane blindato, in muto esilio dentro se stesso.

UN TEATRO DI SOLITUDINE

In Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles, film del 1975 che porta la Akerman all’attenzione del cinema mondiale, la casa è per eccellenza un teatro di solitudine. Fra tappezzerie a fiori e muri color pastello si consuma la routine alienante di una casalinga di mezza età. È una tragedia greca, solo che accade nulla, dice la regista in più interviste. Accade nulla, e intanto il tempo passa. Intanto Jeanne rifà il letto, sbuccia patate, lava i piatti, siede a tavola con il figlio senza scambiare una parola, si prostituisce per mettere da parte qualche soldo. Ogni minuto della giornata è scandito da un’azione, fino a comporre una ritualità che ha il solo scopo di scongiurare il vuoto. Quando Jeanne si alza un’ora prima, l’ansia la assale: ha un’ora da riempire. Sprofonda nella poltrona, se ne sta immobile e pare una statua di sale, pronta a crollare da un momento all’altro. Viene difficile collocare del tutto questi film all’interno del cinema femminista: da ogni inquadratura straborda una solitudine eccessiva, personale. Per la Akerman, figlia di ebrei polacchi sopravvissuti ad Auschwitz che hanno poi rinnegato le proprie origini e le proprie tradizioni, non esiste un senso di casa perché non esiste un’identità, perché si rimane esuli dentro e fuori le mura domestiche. I don’t belong anywhere, dice nel film-documentario Là-bas. Un cinema dello spaesamento, nel senso letterale di uno starsene disancorati, senza Paese e senza memoria.

NO HOME MOVIE

Lontano dal rigore estetico e formale dei precedenti film è No Home Movie, in cui la Akerman riprende gli ultimi mesi di vita della madre. La telecamera, appoggiata sul tavolo da cucina, senza alcuna preoccupazione per l’inquadratura, registra confessioni, momenti di vita quotidiana, persino conversazioni Skype in cui il volto della madre morente occupa lo schermo intero. Un’opera di empatia e dolcezza – l’ultima, perché Chantal Akerman si uccide pochi mesi dopo aver concluso il film.
No Home Movie si apre con l’immagine di un albero in mezzo al deserto, scompigliato dal vento. E proprio il deserto, luogo di miraggi e sparizioni, ritorna più volte nel film come intermezzo fra le scene di intimità quotidiana, quasi fosse l’inizio e la fine di ogni possibilità di incontro e dialogo. Infinite distese di polvere e sabbia e vento, come scriveva Paul Celan, fra cui ci accadde il mondo.

Giulia Oglialoro

Case d’artista #1. “Ab Ovo” di Luca Ferri
Case d’artista #2. Diane Arbus

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Giulia Oglialoro

Giulia Oglialoro

Giulia Oglialoro (1992) si è laureata a pieni voti in Storia dell’Arte all’Università di Bologna con una tesi sulla ricerca identitaria di Claude Cahun tra scrittura e fotografia. Ha collaborato con il centro di ricerca teatrale Laboratorio41 di Bologna, ha…

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