L’amore, la dignità e gli altri. Intervista al drammaturgo Alexander Zeldin

Andato in scena al Romaeuropa Festival con lo spettacolo “Love”, il drammaturgo e regista britannico Alexander Zeldin racconta cosa significa per lui il teatro. A partire dalla quotidianità

Cosa amiamo degli spettacoli del giovane regista e scrittore britannico Alexander Zeldin (1985), che da qualche anno conquista le platee dei più importanti teatri europei? Non solo la sua capacità di portare alla ribalta una quotidianità ai margini che caratterizza le metropoli in cui viviamo, come fa con Love da poco andato in scena per il Romaeuropa Festival. È il suo teatro ad affascinarci, incentrato su un luogo, che da micro diventa macrocosmo, e le persone che lo abitano, diventando famiglia, comunità. Zeldin non è mai alla ricerca di un’esposizione di orrori che urli vendetta, ma sottolinea il dato umano che chiama ognuno di noi a un desiderio di azione. Ne abbiamo parlato con lui, camminando per le vie di Roma.

Romaeuropa Festival 2021. Alexander Zeldin, Love. Photo © Nurith Wagner Strauss

Romaeuropa Festival 2021. Alexander Zeldin, Love. Photo © Nurith Wagner Strauss

INTERVISTA AD ALEXANDER ZELDIN

I tre spettacoli che fanno parte della trilogia The Inequality (Beyond Caring, 2014; Love, 2016; Hope Faith and Charity, 2019) nascono da una reale frequentazione dei mondi che porti in scena. Quale dialogo si crea tra la vita e la scena? 
Alle sue origini il teatro nasce nella vita, da un bisogno ancestrale di dare corpo all’invisibile attraverso un’arte di chiaroveggenza. Artaud parlava del “morso della realtà”. E per me il rapporto tra il teatro e la vita deve essere costantemente rinnovato. Il teatro è il mio strumento per guardare il mondo e stare nel mondo. Le tecniche teatrali, l’immaginazione sono uno strumento per meglio comprendere la nostra situazione personale, politica, spirituale, intima, il nostro potenziale umoristico… Il teatro mi offre la possibilità di riunire persone che nella vita quotidiana non avrebbero modi di incontrarsi, e così dar vita a un laboratorio di sperimentazione radicale sulla “differenza”, creare piccole forme di società la cui frequentazione risulta essere fonte di grande ricchezza personale, professionale e sociale.

Per dar vita a Hope Faith and Charity hai frequentato una di queste case di quartiere in cui vengono offerti dei pasti caldi a chi è in difficoltà. Un luogo che diventa comunità e che, che oltre al cibo, offre un momento di ritrovo, di conforto, in questo caso anche attraverso il canto. E per quanto riguarda Love?
L’esperienza diretta è alla base di tutti i miei spettacoli. Prima di dar vita a Beyond Caring, in cui affronto il tema del lavoro interinale attraverso il ritratto di tre donne che operano come collaboratrici domestiche, ho svolto io stesso questo mestiere. Fare teatro per me è un mezzo per avvicinarsi alla vita fuori dal teatro.
Per Love abbiamo coinvolto circa trenta famiglie: donne, uomini, bambini accolti in diversi alloggi di emergenza. Abbiamo frequentato questi luoghi, dormito con loro. Ci siamo “immersi” in questo mondo per poi poter coinvolgere persone spesso lontane dal nostro vivere quotidiano. Non è una questione politica, ma civica.

Romaeuropa Festival 2021. Alexander Zeldin, Love. Photo © Nurith Wagner Strauss

Romaeuropa Festival 2021. Alexander Zeldin, Love. Photo © Nurith Wagner Strauss

I TEMI DEL TEATRO DI ZELDIN

La famiglia è qualcosa su cui ho riflettuto molto guardando i tuoi spettacoli. Credo sia un tema da rianalizzare oggi, in un’epoca di slabbramento del concetto tradizionale a favore di un allargamento del senso di famiglia. Hai imparato qualcosa rispetto a cosa sia la famiglia oggi, durante la creazione di questo spettacolo?
In quanto esseri umani abbiamo bisogno di essere riconosciuti e compresi e di certo la famiglia ha molto a che vedere con questa ricerca di comprensione e riconoscimento.
Con Love volevo dar vita a una tragedia moderna sulla famiglia, nello stile di Steinbeck, esaminare un aspetto essenziale dell’amore che non è solo quello romantico ma anche quello familiare. Con Hope Faith and Charity volevo fare uno spettacolo sulla comunità. Avevo anche pensato di chiamare la trilogia: “L’amore, la dignità e gli altri”.
Mi chiedi cosa sia la famiglia moderna. Viviamo con idee del XIX secolo, che vanno di pari passo con idee del XX e del XXI secolo. Le diverse epoche convivono nel modo di pensare di ognuno di noi, quindi, quando ci chiediamo cosa sia la famiglia oggi, bisogna riconoscere che questa è influenzata da ciò che era ieri.

La condizione di isolamento che caratterizza le vite che porti in scena è accentuata dalla vita nella metropoli contemporanea, luoghi in cui l’instabilità diventa spesso una condizione di vita.
Un libro molto bello, The lonely city di Olivia Laing, parla della solitudine nella metropoli ma molti autori hanno trattato questo tema, da Perec con L’uomo che dorme a Dostoevskij. Tra i 20 e i 27 anni, quando non avevo molti soldi, ho passato molto tempo a passeggiare per le strade delle città e provare questa solitudine. Teatro vuol dire “luogo per guardare” (theatron) e qui provo a dare forma a qualcosa che è in me ma che porta con sé un dato universale.

Non si viaggia molto in Inghilterra in questo momento, la distanza è vertiginosamente aumentata in seguito a Covid e Brexit. Le situazioni di precarietà di cui tratti sono aumentate?
Il Covid ha rinforzato le disuguaglianze nella società, attaccando maggiormente le persone di colore e del nord dell’Inghilterra. La Brexit invece è il sintomo di un’idea antica e rappresenta una visione passata per un mondo che non ha coscienza della propria storia. L’Inghilterra è un Paese che amo molto, con una grande vitalità ed energia, ma sento che il Paese vive in questo momento un isolamento doppio, come se il Covid avesse accentuato ciò che la Brexit ha creato.

Romaeuropa Festival 2021. Alexander Zeldin, Love. Photo © Nurith Wagner Strauss

Romaeuropa Festival 2021. Alexander Zeldin, Love. Photo © Nurith Wagner Strauss

IL TEATRO SECONDO ZELDIN

Per tutti e tre gli spettacoli gli attori sono affiancati da non attori.
Per la forma di teatro che ricerco ho bisogno di realtà, cerco persone che possano raccontare una storia insieme a me. Hind Swareldahab, con cui lavoro, è una farmacista, proveniente dal Sudan, ed è stata rifugiata politica. Non ha idee fisse su ciò che sia il teatro, motivo per cui il suo sguardo nutre molto gli altri attori, e viceversa.

Questo crea un piccolo miracolo in scena!
Se si sa dirigerli, sì! Rimpiango oggi di aver parlato nel passato di “non professionisti”. Le persone con cui lavoro sono tutte professionisti. Una di loro ha fatto di questo mestiere la sua vita dopo vent’anni di lavoro in amministrazione. È una “non attrice” perché non ha fatto un percorso tradizionale?

All’inizio della tua carriera hai lavorato con Peter Brook. C’è una lezione che custodisci da questo incontro? O ci sono altri, artisti e non artisti, che puoi definire maestri?
Di Brook porto con me la sua gioiosa fede nel teatro. Tra i maestri, di certo Bruegel e poi Alain Platel, unico nel modo in cui lavora il ritmo, la metrica, la drammaturgia dei suoi spettacoli. Tra gli autori amo molto Cechov. E poi leggo tantissimi romanzi.

Hai viaggiato molto tra Cina, Russia, Egitto e ora vivi tra la Francia, dove sei artista associato all’Odeon a Parigi, e l’Inghilterra. Il viaggio influenza il tuo lavoro?
Mi rendo conto oggi che amo molto “spostarmi”, vedere come si fa altrove, non sostare in pianta stabile. C’è un libro di Peter Brook, The shifting point, che sarebbe un bel modo per rispondere alla tua domanda.

Chiara Pirri Valentini

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Chiara Pirri

Chiara Pirri

Chiara Pirri (Roma, 1989), residente a Parigi, è studiosa, giornalista e curatrice, attiva nel campo dei linguaggi coreografici contemporanei e delle pratiche performative, in dialogo con le arti visive e multimediali. È capo redattrice Arti Performative per Artribune e dal…

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