I “between” esplorati dal Romaeuropa Festival 2018

Si è appena conclusa la 33esima edizione del Romaeuropa Festival e per chi vive a Roma significa l'inizio di un dolce letargo, puntellato qua e là da piccoli risvegli.

Fare un resoconto di un festival talmente denso di iniziative come il Romaeuropa non sarebbe possibile nello spazio di un articolo, ma tirare le fila tra i suoi intenti a monte e i suoi esiti a valle sì. “Between world” è il fil rouge che attraversa l’intera manifestazione, “ambito di riflessione e accoglienza, esigenza di approfondimento, che non dimentica il fare ‘festa’ come esercizio di inclusione, senza banalizzare la complessità che ci circonda”, spiega il direttore Fabrizio Grifasi. Il festival si propone di edificare dei ponti laddove si ergono muri, di creare connessioni laddove imperano l’individualismo e la chiusura. “Siamo convinti che il ruolo della cultura è quello di offrire accesso a diverse visioni del mondo”, dice la presidente della fondazione Romaeuropa Monique Veaute. Questa edizione del festival ha spalancato le porte ad artisti di ventiquattro Paesi di quattro continenti, offrendo indubbiamente non pochi spunti di riflessione su temi che arrovellano la nostra quotidianità: Chi è lo straniero? Su quali basi può fondarsi un’etica di rappresentazione dell’altro/a? Il teatro può rilanciare letture alternative del reale? Proviamo a rispondere.

CHI È LO STRANIERO?

Romaeuropa si apre non a caso con lo spettacolo Kirina del coreografo africano Serge-Aimé Coulibaly (Burkina Faso). Kirina è il nome della località situata nell’odierno Mali dove si è svolta l’ultima battaglia da cui è nato l’impero del Mali nell’Africa occidentale. Lo spettacolo è una danza sfrenata che canta la fierezza della marcia dei popoli e ricorda il perenne movimento delle società. Un movimento che impone un pensiero laterale dissolvendo la necessità di trovare lo straniero laddove la cultura si fonda sull’incontro e la convivenza. Meno fiduciosa è la visione di Motus, che con Panorama porta in scena la lotta per la Green Card nell’America di Trump dal punto di vista dei performer della Great Jones Company, compagnia residente al La MaMa Theatre di New York. Qui l’identità nomade, evocata in scena attraverso una dispersione dello sguardo sui diversi livelli multimediali della scena e la mescolanza delle biografie raccontate dai performer, fa da contrappeso a un reale populista e xenofobo con cui il gruppo interetnico di attori e attrici della Great Jones Repertory Company si scontra costantemente. La speranza cede il passo alla denuncia del pericolo, anteponendo al desiderio di re-immaginare il futuro l’impellenza di comprendere il presente. Lo straniero non esiste e lo siamo tutti allo stesso tempo.

Romaeuropa Festival 2018. Motus, Panorama. Photo © Theo Cote

Romaeuropa Festival 2018. Motus, Panorama. Photo © Theo Cote

SU QUALI BASI PUÒ FONDARSI UN’ETICA DI RAPPRESENTAZIONE DELL’ALTRO/A?

Uno degli assunti in comune dei movimenti attivisti (queer, femministi, anti-colonialisti, anti-imperialisti, anti razzisti) è la dichiarazione del posizionamento del soggetto parlante, ossia il rendere conto della specifica situazione e parzialità del proprio punto di vista. Se questi spettacoli ci sembrano convincenti è perché risulta trasparente il punto di vista di chi parla, che nei casi citati coincide con quello che arbitrariamente l’Occidente definisce “straniero”. Ciò non vuol dire che soltanto agli appartenenti di una data comunità sia consentito parlare della propria storia, ma significa sgomberare la scena da qualsiasi dubbio di appropriazione culturale rendendo esplicita la prospettiva dalla quale si rappresenta. Altrettanto convincente, infatti, risulta The Repetition – Histoire(s) du Théâtre del regista svizzero Milo Rau, che racconta l’omicidio di Ihsane Jarfi a Liegi (Belgio) per probabili cause omofobe. Se la “ripetizione” (da cui il titolo) in scena degli ultimi momenti di vita di Ihsane Jarfi e dell’angoscia dei genitori non ci risulta una speculazione indebita “del dolore degli altri” è perché non è la morte del ragazzo a essere oggetto dello spettacolo, ma le possibilità del teatro di rappresentare violenza e morte. Lo spettacolo si pone dichiaratamente come la messa in scena della vicenda di cronaca, mostrandoci il processo che la genera: il cast per attori, il set, le operazioni di ripresa e montaggio dell’immagine di un omicidio. Come scrive lo stesso regista nel suo Gent Manifesto: “L’obiettivo non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa”.

Romaeuropa Festival 2018. Peter Brook, The prisoner. Photo Simon Annand

Romaeuropa Festival 2018. Peter Brook, The prisoner. Photo Simon Annand

IL TEATRO PUÒ RILANCIARE LETTURE ALTERNATIVE DEL REALE?

Oltre a quelli citati, sono tanti i “between” tracciati dal Romauropa Festival 2018: Tra tempo e spazio nell’installazione Linee e Punti No. 1 di Robert Henke, un’opera site specific pensata appositamente per la Sala Santa Rita di Roma. Tra algoritmo e sensorialità, tema indagato dall’artista Ryoji Ikeda con la performance A/V datamatics [ver. 2.0]. Tra l’infanzia e l’età adulta, su cui si basa lo spettacolo La Classe è un docupuppets per marionette e uomini di Fabiana Iacozzilli. Tra mitologia e carnalità sostanziato da Gentle Unicorn dell’artista Chiara Bersani. Tutti esempi, questi, che regalano generosamente letture alternative del passato, del presente, dell’identità, dello spazio e dell’infospazio. Tanto lavoro resta ancora da fare sulla rappresentazione della donna, ancora troppo legata al ruolo di madre, o a quello di oggetto di contesa e assassinio tra uomini, ancora troppo raccontata da uomini. Senza dubbio, però, Romaeuropa Festival 2018 ci lascia delle immagini dense, delle cartine geografiche da ripercorrere, dei preconcetti da destrutturare e si congeda come The Prisoner, lo spettacolo di Peter Brook e Marie-Hélène Estienne: “Non c’era nessuna prigione, e nessun prigioniero”, allo spettatore la libertà di immaginare o abbattere.

Dalila D’Amico

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Dalila D'Amico

Dalila D'Amico

Dalila D'Amico è Dottore di ricerca in Musica e Spettacolo presso il Dipartimento di Storia dell'Arte e Spettacolo dell'Università di Roma La Sapienza, curatrice e videomaker freelance. Dal 2015, insieme a Giulio Barbato, cura la direzione artistica del festival video…

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