Oltre le categorie. Il Romaeuropa Festival in quattro spettacoli

Where are we now? È la domanda che puntella la trentaduesima edizione di Romaeuropa Festival. La risposta sguscia dai quadri teorici e penetra la scena sfidando la consistenza delle categorie musica, teatro, danza, circo e arti visive. Ne parliamo attraverso gli spettacoli di Muta Imago, Jan Fabre, Aurélien Bory, CollettivO CineticO.

“Che cos’è il contemporaneo?” Per Giorgio Agamben: “È davvero contemporaneo chi non coincide perfettamente col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale”. Traslando queste parole sugli spettacoli proposti dal Romaeuropa Festival 2017, salta effettivamente alla vista uno scarto tra l’inattualità delle nostre chiavi di lettura e le ricerche degli artisti. Seppur sgretolate (ormai da decenni) le pareti che separano gli ambiti disciplinari, resistono incontrovertibili categorie come quelle di teatro, danza, musica. Nostalgica e masochistica perseveranza di chi aspetta Godot o sguardo fuori fuoco sul presente? Rispondono gli spettacoli.

MUTA IMAGO

Libro Ottavo-Canti Guerrieri di Muta Imago, la compagnia che da sempre indaga il conflitto tra l’uomo e il suo tempo, catalizza i codici del teatro musicale, della danza e delle arti visive. Lo spettacolo, nato su commissione della Sagra Malatestiana di Rimini, traduce la prima parte dell’VIII libro dei Madrigali di Claudio Monteverdi. Pur restando fedele alla sequenza dei brani della partitura originale, Muta Imago affonda il suo senso negli impulsi corporei, in quei movimenti che gli animali esercitano per attivare il desiderio nell’altro. Il combattimento di Tancredi e Clorinda, che Monteverdi riprende a sua volta da Tasso, si trasforma in uno scontro di identità denudate dall’amore. La scena si divide in due livelli verticali: sopra l’Ensemble Arte Musica diretto da Francesco Cera, sotto si alternano le danze di Annamaria Ajmone e Sara Leghissa, e le azioni di Isabella Giuliani, Giulio Segato, Cecilia Torossi, Guntram Wildpanner. L’alchimia ferina agitata dalle danzatrici nei panni di divinità amazzoni è quella che attraversa le due coppie di generazioni distanti. Le note scandiscono i tempi dei diversi colori di cui la scena si tinge. Un sipario mobile svela e oscura “le selve orride e spesse” che attentano la Gerusalemme del Tasso. Le immagini di una folta foresta si diradano in due finestre ambrate e speculari dove le danzatrici donano le loro maschere (l’identità e la forza), alla coppia più adulta. I brani di Monteverdi, quindi, trasudano e si disperdono in tutte le presenze che popolano il palco, dalle luci alla musica, dalle materialità della scena al gesto.

Jan Fabre, Belgian Rules. Photo Wonge Bergmann

Jan Fabre, Belgian Rules. Photo Wonge Bergmann

JAN FABRE

Belgian Rules/Belgium Rules è un omaggio che Jan Fabre fa alla sua nazione. Artista visivo, performer, coreografo, regista teatrale e scenografo, Jan Fabre è impegnato dalla fine degli Anni ’70 a far collassare le frontiere che delimitano e limitano l’espressività artistica. I suoi spettacoli sono monumentali immagini plastiche di sfrenate danze urlate. Non fa eccezione la produzione proposta al Teatro Argentina. Il titolo ironizza sul doppio significato del termine inglese “rule”, regola, ma anche controllare, dominare. Regole che ritraggono il Belgio come un popolo folle votato alla birra e alle patatine fritte con alle spalle giganti che ne hanno tratteggiato uno sfondo laico, magico, sanguinoso e sospeso: Jan van Eyck, Hieronymus Bosch, Pieter Bruegel, Pieter Paul Rubens, Rogier Van Der Weyden, René Magritte. Artisti che Fabre non manca di citare in scena. A comandare invece sono la burocrazia e il potere che negli ultimi decenni fanno della nazione un’icona della politica europea. I 15 performer si scagliano sul palco in orge carnascialesche umide di birra e sudori, sfilano come majorette su costituzioni dichiarate contro la guerra, scorrazzano come i piccioni di Bruxelles su un’Unione fondata sulla moneta e la celebrazione della carne. Sono attori che danzano o danzatori che professano con ironia tagliente i testi di Johan de Boose, quadri in movimento, o sculture di odori e sangue che rifiutano ogni definizione che non sia quella di “guerrieri della bellezza”, come li definisce Jan Fabre.

Aurelien Bory, Espæce

Aurelien Bory, Espæce

AURÉLIEN BORY

Espæce di Aurélien Bory e la sua Compagnie 111 è l’incarnazione del libro Espèces d’espace di Georges Perec. Sin dalla prima scena i performer traducono in immagine le parole dello scrittore francese, modellando la forma del libro che ciascuno porta con sé: “Vivere è passare da uno spazio all’altro, cercando il più possibile di non andare a sbattere”. La citazione dichiara in partenza il legame tra il testo e la ricerca del coreografo francese: incastrare il corpo nello spazio. In tutte le opere di Bory l’impianto scenico danza con il performer e quest’ultimo si sottomette alle leggi dello spazio che lo accoglie. In Espæce la scena, come un libro, viene “sfogliata” dai movimenti dei performer che la piegano, la chiudono e la stendono. A loro volta i performer vi si arrampicano, se ne lasciano avvolgere, si abbandonano al suo ritmo. Ciascuno si lascia assorbire dalla forma e dal contenuto delle pagine di Perec, imprimendovi a sua volta la propria personale lettura, attraverso una specifica competenza: Guilhem Benoit è un’acrobata, Mathieu Desseigne Ravel un danzatore, Katell Le Brenn una contorsionista, Claire Lefilliâtre una cantante d’opera e Olivier Martin Salvan un attore. Lo spettacolo esplora l’esperienza della lettura insieme alla sperimentazione della scrittura. In Perec, infatti, giochi linguistici e trame di memoria personali si susseguono senza soluzione di continuità, così in scena, movimento e parola, sensazione e significato collimano l’un l’altro.

CollettivO CineticO, Benvenuto umano. Photo © Marco Caselli

CollettivO CineticO, Benvenuto umano. Photo © Marco Caselli

COLLETTIVO CINETICO

Benvenuto Umano di CollettivO CineticO coinvolge danzatori, artisti circensi e musicisti nella messa in scena di un paesaggio simbolico, ironico e visionario. All’inizio Francesca Pennini, fondatrice e regista della compagnia, invita lo spettatore a ispezionare lo spazio intorno a sé per poi chiudere gli occhi e sondare gli anfratti più nascosti del proprio organismo. Questo movimento di fagocitazione dell’esterno all’interno e viceversa diviene il dispositivo costruttivo di Benvenuto Umano. Lo spettacolo trae ispirazione da fonti apparentemente distanti tra loro: l’iconografia misteriosa degli affreschi del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara, la medicina tradizionale cinese, la grafica giapponese, l’anatomia, l’astrologia, il circo, la tecnologia. Gli elementi scenici rimandano a figure geometriche simboliche, cerchi, triangoli, ideogrammi cinesi che divengono strutture a supporto di numeri circensi. L’incontro tra corpi e materia si traduce nell’amplificazione di suoni, modulati, registrati e mixati in tempo reale da uno dei performer. Il corpo si riversa in scena come cassa di risonanza, intensità di organi autonomi tanto che verso la fine dello spettacolo i performer sono chiamati a essere un polmone, uno stomaco, un fegato e un cuore che lottano tra loro. A loro volta gli affreschi ferraresi vengono “indossati” e tatuati sui corpi dei performer. Come un nastro di Möbius immagini, materia, corpi e musica si fondono in una drammaturgia puntuale, colta e spiritosa che da sempre contraddistingue la ricerca di CollettivO CineticO.
Where are we now?

Dalila D’Amico

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Dalila D'Amico

Dalila D'Amico

Dalila D'Amico è Dottore di ricerca in Musica e Spettacolo presso il Dipartimento di Storia dell'Arte e Spettacolo dell'Università di Roma La Sapienza, curatrice e videomaker freelance. Dal 2015, insieme a Giulio Barbato, cura la direzione artistica del festival video…

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