Intervista a Filippo Arlia. Il direttore d’orchestra che vola a New York per un festival Jazz
Dalla musica sinfonica al jazz, il salto è breve se a farlo è un maestro che, sulla scia di Piazzolla, interpreta la musica come un linguaggio universale, libero da convenzioni. L’intervista

“Jazzista per un giorno sì, ma sempre con uno spartito davanti. Per quanto in Piazzolla ci siano ampi margini di improvvisazione noi, come Duettango Quintet, rimaniamo orchestrali e suoniamo una musica manoscritta, o meglio: partiamo da lì”. Così esordisce il maestro Filippo Arlia, direttore d’orchestra e docente al Conservatorio di Catanzaro che a New York si è esibito prima come direttore classico con l’orchestra della Carnagie Hall; e poi come pianista di jazz tango con il Duettango Quintet, nell’ambito del Peperoncino Jazz Festival di New York. Manifestazione, quest’anno alla quarta edizione, in cui la collaudata formazione composta da Marco Gemelli al bandoneon, Andrea Timpanaro al violino, Filippo Garruba alle tastiere, Marco Acquarelli al basso e lui stesso al pianoforte, ha spopolato con il famoso tributo ad Astor Piazzolla, in un atteso concerto al Di Menna Center for Classical Music di Manhattan. E per approfondire in che modo un direttore d’orchestra, proveniente dalla più classica formazione, abbia deciso di aprirsi anche a sonorità generalmente estranee alla musica “colta”, lo abbiamo intervistato.
Intervista al direttore d’orchestra Filippo Arlia in occasione del concerto a New York
Come nasce il suo interesse per Astor Piazzolla?
È nato diversi anni fa, da un disco che mi regalò mio padre. Un’edizione di Libertango da cui, insieme alla passione, è scaturita l’esigenza di approfondire la conoscenza del maestro argentino e della sua tipologia di musica che rispetto alla classica è tutto un altro linguaggio. Un percorso di ricerca in cui ho fatto un deciso salto in avanti quando ho avuto l’opportunità di suonare con Fernando Suárez Paz, il suo violinista. Esperienza con cui ho scoperto un Piazzolla articolato e complesso, autore di una produzione ben più ampia di quella famosa in Italia, caratterizzata da un repertorio che spazia dal tango alla musica sinfonica.
Quindi ha deciso di iniziare a proporlo?
Esattamente, anche perché l’orecchiabilità di Astor Piazzolla incontra la mia mission, sia come direttore d’orchestra che come docente del conservatorio, ovvero: promuovere e diffondere la conoscenza, l’ascolto e la passione per la musica, non solo classica ma direi suonata. Insomma, se proporre Piazzolla può portare un maggior numero di persone a teatro, rispetto a un compositore più virtuoso e ricercato, questo è già un successo; nella speranza che poi, le stesse persone “agganciate” con un repertorio conosciuto possano incuriosirsi e ritornare per ascoltare altro. Penso che quando si parla di cultura l’inclusività e l’apertura siano alla base.
Questo vale anche per i giovani?
Certo, avvicinare i giovani alla musica e al conservatorio è fondamentale e magari si può iniziare facendo capire loro quanto siano realtà vive e attuali. L’idea è di aprire una breccia, da cui far affiorare le potenzialità di tutto il mondo che c’è dietro.
Come ha cominciato a proporre questo inusuale repertorio di jazz tango?
Inizialmente con una formazione molto ristretta, composta da pianoforte e bandoneon.
Bandoneon?
Sì. Si tratta effettivamente di uno strumento particolare, creato in Germania e poi esploso in Sud America; ancora relativamente poco conosciuto e introdotto solo recentemente nei conservatori. Si avvicina alla fisarmonica ma ha maggiori possibilità espressive.
Quindi avete iniziato in due?
Esatto, ma solo per capire ben presto la necessità di ampliare la formazione. In duo il rischio era di sacrificare le articolate sonorità di Piazzolla che, nelle sue composizioni, è stato davvero molto generoso, dedicando ampio spazio a strumenti che non suonava, primo tra tutti il violino, per continuare con la chitarra e il basso elettrico, senza naturalmente tralasciare il suo pianoforte.
Quali sono state le sue modalità di approccio a questo linguaggio sonoro?
Senza dubbio coerenti. Perché è vero, siamo qui al Peperoncino Jazz Festival di New York, suoniamo tango jazz ma sempre consapevoli di non essere jazzisti puri. Noi siamo tutti orchestrali e la nostra musica è codificata. Poi, certo, i margini di improvvisazione sono ampi, specialmente negli assoli, in cui Piazzolla, scrivendo partiture con note lunghe, ha lasciato ampia libertà ai musicisti.
Interessante. Può dirci di più?
Certo, è molto interessante perché si tratta di una modalità compositiva caratterizzata da una libertà estremamente moderna che ha origini antiche. Da un certo punto di vista Piazzolla è ritornato a Bach che, nel Settecento non scriveva tutto, lasciava delle note lunghe su cui i musicisti potevano improvvisare. Paradossalmente oggi i compositori non lasciano margine all’improvvisazione, la quantità di informazioni che mettono nello spartito è aumentata in misura esponenziale e questo rischia di andare a scapito dei giovani musicisti che perdono la capacità di improvvisare e comporre.
Il risultato in Piazzolla?
Una musica che stupisce perché ogni esecuzione non è mai uguale alla precedente. Per quanto la band possa essere la stessa, ogni interpretazione sarà sempre diversa, poiché i musicisti durante gli assoli si esprimeranno in maniera personale, unica. Una libertà preziosa che va preservata; dinamica in cui il ruolo dei conservatori è cruciale, perché solo attraverso la piena conoscenza si raggiunge la massima libertà.
Oggi la popolarità di Piazzolla è cresciuta?
Sicuramente sì, anche se in pochi ancora lo conoscono veramente. Fenomeno dovuto al fatto che in Italia è diventato famoso con Libertango, pezzo bellissimo che ha fatto innamorare anche me, ma strategicamente “facile”; cosa che negli Anni ’80 ha fatto la sua fortuna, portandolo in televisione, in radio, a suonare con Milva e Mina; ma che poi, come spesso accade, si è tradotto in un’equazione. Mentre Astor Piazzolla non è solo Libertango, è molto più profondo sia da punto di vista emotivo che compositivo. Per fortuna oggi lo stigma sta cadendo e anche le orchestre classiche stanno iniziando a introdurre nei loro programmi brani tratti dal suo repertorio sinfonico. Del resto, non si può negare che le note calde di Piazzolla abbiano un che di Mediterraneo che seduce gli Italiani, creando un legame speciale tra Sud America e Sud Italia.
Il direttore Filippo Arlia al pianoforte per il Peperoncino Jazz Festival di New York
Ora entriamo più nello specifico del Duettango Quintent; la particolarità che emerge in maniera forte durante il concerto è la sua capacità di lasciarsi andare. Di dismettere le vesti del direttore per assumere quelle di pianista puro…
È vero. Mentre in orchestra sono io che dirigo, qui, secondo la migliore tradizione jazzistica, mi lascio guidare. Nel tango jazz di Piazzolla è il bandoneon che conduce. Il pianoforte crea la struttura mentre il bandoneon è fondante, dal momento che, insieme al violino, svolge il ruolo che nel jazz tradizionale spetta ai fiati, quello di graffiare l’anima, di tirare tutto fuori. Insomma sulle note di Piazzolla è impossibile restare indifferenti.
Il Peperoncino Jazz Festival dalla Calabria a New York
Come nasce il Peperoncino Jazz Festival?
Si tratta di una realtà ormai ampiamente consolidata che nasce a Diamante, in Calabria, ben 24 anni fa, su iniziativa di Sergio Gimignano. Da quattro anni il festival ha acquisito un respiro internazionale e si svolge anche a New York con la co-direzione artistica del maestro John Petitucci.

Il rapporto tra Filippo Arlia e il Duettango Quintet con il Conservatorio di Catanzaro
Mi pare inoltre giusto sottolineare che siete a New York anche come rappresentanti del Conservatorio di Catanzaro…
Esattamente. Noi del Quintetto, come docenti del Conservatorio di Catanzaro, realtà che ci ha fatto incontrare, condividiamo l’obiettivo di avvicinare i giovani alla musica. Perché, indipendentemente dalla strada che si vuole intraprendere, la formazione classica fa la differenza. Basti pensare che tutti i grandi jazzisti di oggi, da Enrico Pieranunzi a Stefano Bollani e Fabrizio Bosso, per citarne alcuni, hanno studiato al Conservatorio.
Nello specifico cosa vi ha portato al Peperoncino Jazz Festival di New York?
In linea con questo discorso, siamo orgogliosi di aver vinto, come Conservatorio un bando del PNRR che ci sta permettendo di partecipare, coinvolgendo attivamente i ragazzi, a Festival in tutto il mondo. Adesso siamo qui, e a settembre saremo all’EXPO di Osaka, dove presenteremo il nuovo disco. Poi, naturalmente saremo anche al Teatro Greco di Taormina e a quello di Siracusa. Per noi è essenziale fare una didattica attiva, far “sentire” ai ragazzi il mondo della musica nella sua interezza. Dal momento che, se è vero che oggi la formazione tecnica è imprescindibile e ha raggiunto livelli mai toccati prima, è altrettanto vero che la musica nel suo complesso è movimento, vita, passione. Quindi, anche la crescita personale è fondamentale e va sempre coltivata.
Ludovica Palmieri
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