TORINO CHIAMA INDIA
Da sempre la musica dialoga col viaggio, è un territorio rarefatto che non conosce confini. Si nutre di movimenti e di incontri. Ha la capacità di trasformare i luoghi in un Altrove, annullando le distanze geografiche e temporali, nel qui e ora del suono. Sono le sei e trenta del mattino, dalla stanza d’albergo scrutiamo il Lingotto, mentre con la mente torniamo qualche ora indietro e a miglia di distanza, in una India immaginata, tra rock e misticismo, percussioni, trombe, flauti e luci strobo. Il gran finale di Club To Club anche quest’anno ha lasciato il segno, con Junun (ovvero Madness of love), l’album e il live che ha visto sul palco principale il compositore israeliano Shye Ben-Tzur, il chitarrista dei Radiohead Jonny Greenwood e l’ensemble The Rajasthan Express. Una performance vibrante, accesa – come i turbanti turchesi che si scorgevano al di sotto del palco –, ma composta, che è riuscita a trasferire, in poco più di un’ora, all’interno di un’architettura post-industriale, l’energia del mondo. Dietro la quale si percepiscono la profonda tensione sperimentale e curiosità per l’alterità che hanno spinto una star del rock a confrontarsi fisicamente, e mentalmente, con l’estetica melodica indiana e con l’universo poliglotto di Shye Ben-Tzur, con la sua passione per il folklore e la musica tradizionale. Un live quindi che, se letto da una prospettiva post-coloniale, è una sfida lanciata a ogni cartografia, a ogni pretesa di fissare la cultura in una forma, fosse anche quella musicale.

OLTRE I CONFINI
Il 2016 del festival torinese, conosciuto per la sua vocazione avanguardista tanto quanto per la capacità di individuare e tracciare le rotte delle sonorità più interessanti del contemporaneo, ha coinciso esattamente con questa volontà di oltrepassare le origini, intese come i confini dell’elettronica e una certa interpretazione del dancefloor. È così che abbiamo assistito nella serata del 3 novembre al Conservatorio, al suggestivo concerto di Arto Lindsay, storico nome della no wave newyorkese dalla fine degli Anni Settanta. Un artista dal magnetismo raro, un performer dalla voce rarefatta, a tratti acuta e dallo stile inconfondibile con la sua chitarra elettrica. Il simbolo della sperimentazione e della cross-pollination tra il mondo artistico (si ricordi la vicinanza a Jean-Michel Basquiat e Vito Acconci, le collaborazioni con Nan Goldin e Matthew Barney, per citarne alcuni) e quello musicale, tra rock, pop e influenze provenienti dalla cultura brasiliana. Poche ore dopo, imperdibile in sala gialla al Lingotto, il dj set di Arca (producer di origini venezuelane, con base a Londra, che vanta collaborazioni con nomi quali Kanye West, Björk, FKA Twigs) insieme a Jesse Kanda, director e artista di origini giapponesi, col suo universo visivo onirico e alieno. Un duo esplosivo, un continuo rimbalzo dallo schermo al palco, al fascino androgino di Arca che, energico e sensuale, ha arricchito il live con stacchi canori, tra cui l’indimenticabile omaggio a Miguel Bosè. Se di multiculturalismo si parla, c’è ancora un pool di nomi imprescindibili per questa edizione: l’artista egiziano-iraniana Lafawndah che, sapientemente, mescola pop ed elettronica ricreando un immaginario sonoro spezzato e molto ritmico; Dj Lang e Nan Kolè che, con la label Gqom Oh!, rendono manifesto l’asse Roma-Durban, facendo riflettere sulle geografie della musica globale nella società dell’informazione e delle tecnologie soft; e il nuovo volto dell’hip hop italiano, Ghali, milanese di adozione ma di origini tunisine, che senza alcuna esitazione ha trascinato il pubblico fino al main act di Jonny Greenwood, Shye Ben-Tzur e dei Rajasthan Express.

IL NUOVO DANCEFLOOR: MUSICA POST CLUB
Se Dj Shadow non ha bisogno di presentazioni e il suo set è stato un’esperienza totalmente immersiva, che ha preso il via da un evocativo viaggio nello spazio, tra i nomi più attesi di questa edizione di Club To Club c’è stato sicuramente il duo finlandese con base a Berlino che si fa chiamare Amnesia Scanner, affiliato a Janus, il collettivo che ha portato al festival altri nomi di rilievo, collocabili tra dancefloor ed elettronica “astratta”, come M.E.S.H., Kablam e Total Freedom. Tornando agli Amnesia, che sono tra gli esponenti più deraglianti di questa direzione post club, ossia di un’elettronica che a livello concettuale (ma anche empirico) dialoga con altre discipline – dall’antropologia all’informatica alle derive teoriche del digitale –, ciò che colpisce è la capacità di reinventare il futuro della musica rimanendo profondamente ancorati al presente, a tutte quelle sonorità che apparentemente non esistono, ma che sono riconducibili a un mondo tecnologico, fatto di contrasti, brusche variazioni, sperimentazioni, in cui finisce di tutto, dalla musica concreta al noise, dall’orientalismo al grime.

ABSOLUT SYMPOSIUM: L’HUB CULTURALE DEL FESTIVAL
Tutto comincia dal vapore del ghiaccio secco, che esce voluttuoso dallo shaker invadendo la stanza già immersa in un bagno luminoso rosa-violaceo. La parola d’ordine è chemical, il nome di una delle secret room di Absolut, all’interno dell’AC Hotel del Lingotto, da tre anni hub esperienziale e punto di incontro del Festival. In questo 2016 le sorprese non sono mancate: tre secret room a tema; una vip room dove è stata presentata l’ultima edizione limitata dell’iconica bottiglia che ha stregato Andy Warhol; un caveau all’interno del Lingotto, una vera e propria architettura temporanea dai profili sghembi incorniciati da led blu, dalla cui terrazza, il concerto al buio degli Autechre è stata un’esperienza estatica; per finire con una lunga serie di talk e incontri che hanno spaziato dalla musica all’audiovisivo, dall’arte al design. Tra questi, la proiezione di Negus, il lungometraggio degli Invernomuto che, in un viaggio fisico e nella memoria, ha riconnesso in nome del Rastafarianesimo il presente e il passato italiano, etiope e giamaicano.
Carlotta Petracci