L’intervista allo scenografo di “Duse” Gaspare De Pascali
L’estetica dello scenografo racconta di pittura, materia e luce. In “Duse” di Pietro Marcello, presentato alla 82ª Mostra di Venezia, ha creato un universo “iperreale” che unisce imperfezioni e stratificazioni luminose, ispirandosi a Monet e Visconti

“La scenografia di Duse è una sfida all’autenticità: un quadro di pennellate ravvicinate, dove i colori si uniscono e prendono vita nella luce”: così Gaspare De Pascali descrive il suo lavoro, tra pittura, materia e sensibilità luminosa. Con Duse, diretto da Pietro Marcello e presentato all’82ª Mostra del Cinema di Venezia, adotta un approccio “iperreale” che accoglie squilibri e imperfezioni per restituire verità: la luce diventa linguaggio, lo spazio si trasforma in metafora. Ispirato da Monet e Tarkovskij, da Vermeer e Visconti, De Pascali costruisce un cinema che oscilla tra realismo e impressionismo, minimalismo e barocco, trasformando l’invisibile in immagine.
Lo scenografo Gaspare De Pascali
Nato a Lecce e cresciuto a Ravenna, si è formato tra Italia e Australia, lavorando tra Europa, Messico e Medio Oriente. Dal debutto fino ai progetti internazionali come Concordia e ai riconoscimenti veneziani con Iddu e Primavera, genera mondi visivi che uniscono artigianato e poesia. Lo abbiamo intervistato.
L’intervista allo scenografo Gaspare De Pascali
Questo suo viaggiare per il mondo, quanto ha inciso nel formare lo sguardo scenografico e la sensibilità verso luce e colore?
Ha contribuito in maniera decisiva. Al di là degli studi, che restano la base, è stato il viaggio a plasmarmi. Come accadeva ai pittori del Seicento, Settecento e Ottocento con il loro “viaggio in Italia”, anche per me muovermi e conoscere culture diverse è stato fondamentale: non solo a livello culturale, ma anche architettonico e paesaggistico. Cambiare latitudine significa cambiare luce; attraversare meridiani e paralleli vuol dire confrontarsi con percezioni diverse. Tutto questo ha inciso profondamente sul mio sguardo.
In “Duse” parla di un approccio “iperreale”. Come si traduce in senso concreto e in cosa si distingue dal minimalismo che le viene attribuito?
“Iperreale” per me significa non cercare la classicità cinematografica, ma aderire alla vita nelle sue asimmetrie e imperfezioni. Pietro viene dal documentario e ha trasformato quel linguaggio in una virtù: lavoriamo sempre a contatto con ciò che è autentico. Ogni dettaglio è stato curato: tende militari recuperate da musei, oggetti d’epoca, materiali ricostruiti con meticolosità. Perfino cereali e farine del pane erano lavorati come allora. Non si tratta di ridurre e astrarre, come nel minimalismo, ma di stratificare segni e difetti fino a renderli vivi e tangibili.
Il dialogo creativo col regista di “Duse” Pietro Marcello racconta di una ricerca comune e un’attenzione al dettaglio.
È stato un percorso condiviso, nutrito di curiosità reciproca e passione per il passato. Siamo entrambi “nerd” della ricerca: ci piace sorprenderci scoprendo oggetti, fonti e tecniche dimenticate. Questo ha reso il lavoro naturale e stimolante, e credo che questa complicità emerga anche sullo schermo.

Pittura e cinema nelle scenografie di Gaspare De Pascali
Pittura e cinema: da Monet, Vermeer, Renoir a Tarkovskij e Visconti. Come dialogano nei suoi set?
La pittura mi guida come grammatica di luce e materia: Monet nelle vibrazioni atmosferiche, Vermeer nella luce filtrata e geometrica, Renoir nella tattilità dei tessuti. E poi Courbet, Fattori, Borrani, Morandi. Tarkovskij mi ha insegnato a trattare il tempo come materia, Visconti l’accuratezza storica, Losey e Truffaut la tensione tra realismo e poesia. Traduco questi riferimenti in palette condivise, moodboard, texture stratificate e soprattutto in una luce diegetica che varia a seconda dei materiali, restituendo la sensazione stessa della natura.
Tra realismo e impressionismo, fino a sfiorare il barocco: come si mantiene l’equilibrio senza tradire la verità poetica?
La chiave è stata la luce, intesa come pennellata che svela caratteri e stati d’animo. Ogni inquadratura è costruita come un intreccio di tratti minuti e trasparenti, che fondono realismo e impressionismo. Ho posto ancore di verità – fonti di luce motivate, oggetti d’uso, coerenza dei materiali – attorno alle quali ho permesso gesti più pittorici, a tratti barocchi. La poesia nasce in questo equilibrio.
La luce è un veicolo di verità?
È un vero materiale scenografico, un flusso che rifrange tra forme e colori. Non solo illumina, ma rivela caratteri e stati d’animo, come nei dipinti. Lavoro sulle fonti pratiche, sulle temperature, sulle superfici che assorbono o riflettono. È un modo di “dipingere in scena”.
L’artigianalità e la simbologia nella scenografia di oggi
Qual è ruolo dell’artigianalità oggi, e come si integra col digitale?
Per alcune vedute abbiamo costruito miniature in scala ridotta, replicate poi in scala reale. Questo ci ha permesso di testare luce e proporzioni, mantenendo una verità tattile per gli attori e per la macchina da presa. Parallelamente, il set extension ci ha consentito di ampliare profondità e panorami. L’artigianato non è nostalgia: è materia viva, che il digitale completa e amplifica.
Gioca spesso coi simboli nascosti: che lo spettatore sappia coglierli, è una certezza?
Il film è stratificato e aperto a più letture. Ogni spettatore si ferma su dettagli diversi: un colore, una forma, un simbolo. È bello lasciare tracce che agiscono anche a livello inconscio. Nella scena del letto a baldacchino, ad esempio, che richiama la bocca di scena teatrale, i nipoti di Eleonora assistono per un attimo alla sua grandezza. Sono segni che ampliano lo spessore poetico senza imporsi.
Dai primi lavori come “Hybris” a “Concordia” e “The Bad Guy” è cambiato il suo rapporto con lo spazio scenico in un contesto globale?
Il mio approccio è rimasto costante: cercare emozioni e significati, anche attraverso simboli che il pubblico riconosce inconsciamente. Col tempo si affina lo sguardo, e le produzioni più grandi richiedono soluzioni diverse: a volte più ampie, a volte supportate dagli effetti visivi. Ma anche nei contesti internazionali lo spazio resta prima di tutto occasione creativa, non solo tecnica.
Dal cinema seriale – “Summertime”, “The Bad Guy” – ai film d’autore come Duse: quali sfide incontra e come protegge la sua identità?
Nelle serie i tempi sono serrati: servono set modulari, palette condivise, piani luce replicabili. Ma per non perdere identità stilistica definisco sempre una grammatica fatta di palette, texture e simboli, che resti riconoscibile. L’efficienza è necessaria, ma lo stile si preserva nella coerenza dei dettagli.
Quali direzioni vede per la scenografia contemporanea, anche in dialogo con le nuove generazioni?
Vedo tre traiettorie: sostenibilità – riuso, archivi vivi di scenografie -, ibridazione tra artigianato e digitale e formazione condivisa. Continuerò in questa direzione: sto seguendo un film internazionale e l’anno prossimo due progetti che richiederanno un intenso lavoro di ricerca storica. Ciò che amo è non fermarmi alla superficie, ma arrivare ai dettagli quotidiani delle epoche.
Ginevra Barbetti
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