Al festival di Cannes Mission impossible. Finisce qui?
Un'operazione nostalgia che guarda alla memoria degli anni d'oro di Mission Impossible. L'action movie con Tom Cruise al festival di Cannes

Chi ha la sua stessa età oggi ricorda che Tom Cruise ha fatto anche film come Il colore dei soldi con Scorsese (e Paul Newman), il cult movie Cocktail che rese celebre l’arte dei mixologist, Rain Man con Levinson (e una giovane, agguerrita Valeria Golino), Nato il quattro luglio di Oliver Stone (forse il suo film più bello) e l’imponente Magnolia di Anderson. E uno di seguito all’altro; erano anni in cui uno degli attori più talentuosi di Hollywood si offriva a cuore aperto all’intensità di drammi provanti, come fanno i grandi interpreti. Era molto prima che arrivassero Jack Reacher ed Ethan Hunt, due “maschere di ferro” (entrambe legate a Christopher McQuarrie) che lo hanno costretto in una gabbia dorata, se si pensa che l’ottavo episodio dovrebbe portare a cinque i milardi d’incasso complessivo della saga; ma è pur sempre una gabbia e quest’ultimo episodio (difficile immaginarne un altro, a meno che non atterrino gli ufo) rappresenta il suo “41 bis”.
La missione memoria di Tom Cruise
La prima parte è interessante perché è una “missione memoria”: il film procede vorticosamente tra le scene culmine di tutte gli episodi precedenti e richiama tutte le esplosioni più spettacolari e le velocità più vertiginose, tutti i cattivi abbattuti e tutti gli amori perduti dall’eroe nel compimento delle sue missioni. La memoria cinematografica di questa “operazione nostalgia” ha un che di sperimentale, ma scorre via tra le rapide di un fiume di fotogrammi, che devono rappresentare l’immenso potere dell’Entità, la super intelligenza artificiale che “odia gli umani” e ne progetta lo sterminio. Così, la posta in gioco si eleva al quadrato, l’eroe umano, e umanizzato da copiose lacrime, diventa il supereroe in stile Marvel il cui corpo immortale sfida vittorioso gli elementi. Le bombe atomiche scollegate sono troppe, ma scorrono anche quelle nella retorica dell’action movie, di cui gli americani sono padroni indiscussi (ma il nostro Jeeg Robot ne vale alcuni di questi, lasciatemelo dire). Non mancano i pochi momenti ilari, e necessari, che fanno intravedere le potenzialità quasi comiche di un attore che si è sempre più spesso preso sul serio, fino a diventare lo stuntman di se stesso. Per questo Cruise è osannato, ma recitare è un’altra cosa, forse.
La serie tv di Mission Impossible
Nelle scene finali di commiato viene da rimpiangere quegli episodi di Brian De Palma, così meravigliosamente hitchcockiano, e di John Woo, così meravigliosamente John Woo: due capolavori al confronto dei quali lo stile di McQuarrie appare troppo retorico, telefonato. Bravo nel coreografare la violenza e nel filmare l’escapologia cruisiana, ma poco convincente nel dare un corpo drammatico alla trama macchinosa, e ciò malgrado IA sia in cima alla classifica delle angosce contemporanee. Un’amica, alla buvette dei giornalisti, mi ricorda che le 171 puntate dell’originaria serie tv Anni ’60-’70 Mission Impossible di Bruce Geller (che su wikipedia è ancora una voce in rosso!) erano un ‘altra cosa. C’entrava la creatività.
L’escapologia di Tom Cruise
Una volta c’era Houdini, l’escapologo famoso che riusciva ad evadere da una cassaforte svizzera gettata in fondo alla Senna nella quale era stato incatenato e inchiavardato in tutti i modi possibili. Te lo ritrovavi fuori, in pochi secondi. Era così, o qualcosa del genere. All’uscita della proiezione del film ti senti un po’ come lui, o come Cruise, sfuggito al sovraccarico di azione e pronto a goderti una meritata vacanza. Mentre sai che giunti fin qui, il buon coetaneo Tom dovrà decidere se, arrivato al capolinea, voglia tornare libero e fare l’attore o cercare un’altra gabbia da stuntman di rango. Certamente dorata.
Nicola Davide Angerame
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