Al cinema il film della compagnia teatrale Anagoor. Intervista al direttore artistico Simone Derai 

"Todos los males" è il titolo del primo film realizzato dai veneti Anagoor, compagnia fra le più apprezzate del panorama italiano - e internazionale – delle performing arts. Abbiamo intervistato il regista e direttore artistico della compagnia

Debutta nelle sale cinematografiche italiane Todos los males, il primo film degli Anagoor, la compagnia fondata a Castelfranco Veneto nel 2000. Il nuovo progetto cinematografico è l’occasione per fare il punto su un collettivo in cui dialogano da sempre performing art, filosofia, letteratura, cinema e scena iper-mediale. 
Ne abbiamo parlato con Simone Derai, direttore artistico della compagnia. 

L’intervista a Simone Derai 

A che punto è la vostra ricerca visiva?  
In questi giorni esce nelle sale cinematografiche Todos los males, il nostro primo film nato dall’allestimento di uno spettacolo di teatro musicale, Les Incas du Perou, di Rameau, andato in scena nel 2022 in occasione della Sagra Musicale Malatestiana a Rimini. Già questa informazione risponde in parte alla domanda: lo sviluppo di un lessico per immagini video interno al teatro sta maturando in un autonomo linguaggio cinematografico. 

Il vostro lavoro ha costruito una nuova forma che sta tra l’intermeddialità e la transmedialità.. 
Sì, è vero, non solo confluiscono e coesistono nel nostro teatro arti e medium diversi, ma in molte creazioni si è riflettuto su una sorta di metamorfosi mediale: la pittura di Giorgione che diventa teatro, quella di Artemisia che diventa video-art, la poesia classica che diventa immagine per la sola forza generativa della voce. Siamo nel pieno dominio dell’ekphrasis, ovvero quella forza retorica del linguaggio (di origine antichissima) capace di spostamenti mediali. 

Spiegaci meglio… 
Il nostro teatro non solo invita e contiene segmenti di cinema, ad esempio, ma del cinema fa propria una modalità di scrittura che non è pertinente al teatro. Ha accolto tecniche del cinema, come il montaggio, nella propria sintassi invitando lo spettatore a osservare piani di lettura doppi, spesso paralleli o, altrettanto spesso, contrastanti, in una rapidità di successione che ha qualcosa del sogno. E tutto questo con la pretesa di rimanere teatro. 

Il paradigma del contemporaneo è un’etichetta molto storica e riscrivibile: vi chiedo se c’è una frontiera tra videoarte e cinema sperimentale. 
Se i contesti storici al cui interno sono sorti alcuni linguaggi specifici sono circoscrivibili, ci sembra che le istanze genetiche siano spesso ibride e le categorie comunque inefficaci e sempre più labili. Sicuramente noi abbiamo maturato la consapevolezza che il video, come lo stavamo utilizzando all’interno del recinto teatrale, aveva sempre più spesso i connotati di una sperimentazione cinematografica. 

Anagoor, Ecloga XI. Photo Giulio Favotto
Anagoor, Ecloga XI. Photo Giulio Favotto

Come armonizzate comprensione ed emozione con l’empatia dei vostri lavori?  
Non c’è opera d’arte che non goda di una maggiore comprensione fornita da una conoscenza storico-critica. Ciò non impedisce a chiunque di godere del primo e immediato impatto emotivo e intellettivo generato. Le chiavi d’accesso sono a disposizione di tutti. E, poi, nel nostro caso c’è la questione performativa sempre presente: essere antenne riceventi e trasmittenti che veicolano insieme pensiero e emozioni. La difficoltà è quella di non lasciare mai divise le due cose, il tentativo è quello di illuminare emotivamente il pensiero e viceversa

Il classico è una rovina del passato o un incipit del futuro che verrà? 
Entrambe le cose. Il classico è un corpo morto, perennemente dissepolto e riesumato. Si tratta di mettersi à l’école de la mort per soffiare nel cadavere un po’ di respiro, perché ancora parli. Ma questa operazione da negromanti non serve, come si dice spesso, a illuminare il presente. Siamo noi, dalla nostra posizione, viziando con il nostro punto di vista l’interrogativo di volta in volta posto al classico, a illuminare il passato e rivelare ciò che prima non era visibile. Solo dopo, scoperte le differenze e le distanze che ci separano dal passato, possiamo riguardare il presente con occhi più consapevoli. 

Il vostro processo creativo parte dalla parola o dall’immagine? 
Credo che alla base ci sia la necessità di indagare aspetti dell’esistenza che per la loro complessità non riescono ad essere “detti” solo attraverso le parole o descritti appieno da un’immagine. Ecco, allora, che nella composizione drammaturgica, accanto alle diverse fonti letterarie che possono intervenire nella stesura di un vero ipertesto scenico, emergono il canto, la musica, il cinema e la danza. 

Nei vostri lavori l’immagine non è mai una didascalia, nemmeno una memoria o uno sfondo, assume una tridimensionalità anche sonora.. 
Un evento totale. Il teatro non è solo un’arca che contiene tutte le arti, è anche il luogo della contemporaneità, ovvero della compresenza dei tempi: in teatro più che altrove è possibile sollevare il velo che ci separa da altri tempi e altre dimensioni. E costituisce per sua stessa natura un processo di conoscenza attraverso l’esperienza. Non una conoscenza data per certa una volta per tutte, un sapere chiuso, morto, ma un processo aperto, vivo, costantemente sottoposto a verifica. 

Il tempo, mi interessa la dimensione che date al tempo pensandolo come sospensione metidativa, attesa, narrazione interiore: sento echi di Bill Viola in alcuni collassi del tempo… 
Il tempo è immesso nell’immagine: scena e platea condividono lo stesso tempo. Si sviluppano nel medesimo spazio e nel medesimo tempo due tensioni: quella del performer, che attende all’immagine come si attende a qualcosa nel senso di dar opera a qualcosa; e quella dello spettatore che, invece, attende l’immagine nel senso che sta in attesa di essa, aspetta (nel senso etimologico del termine: sta cioè rivolto verso un qualche oggetto, con pazienza, senza muoversi, quasi con l’occhio intento verso la cosa o la persona che deve arrivare) che essa si manifesti. La comune radice con Bill Viola è da rintracciare nel senso del tempo conservato e reso manifesto dalla ritrattistica rinascimentale. 

Ci parlate di Todos los malos? Che direzione sta prendendo questo progetto? 
Il film è un affresco sulla tradizione coloniale dell’Europa, sullo sguardo, sulla pericolosità della rappresentazione e pur tuttavia sulla sua irriducibile necessità, sul fallimento storico di un incontro e pur tuttavia sull’apertura di senso inaspettato che le vite individuali sanno spalancare. 

Simone Azzoni 

www.anagoor.com 

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Simone Azzoni

Simone Azzoni

Simone Azzoni (Asola 1972) è critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea presso lo IUSVE. Insegna inoltre Lettura critica dell’immagine e Storia dell’Arte presso l’Istituto di Design Palladio di Verona. Si interessa di Net Art e New Media Art…

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