AltreCine, storie dalla Cina. La rassegna cinematografica a Roma

Fino al 27 maggio è in corso al Teatro Manzoni la rassegna sul cinema documentario cinese contemporaneo. Un’occasione per scoprire aspetti sociali, politici e culturali di un Paese poco raccontato nelle sue sfaccettature quotidiane

AltreCine è la rassegna di documentari cinesi indipendenti in corso a Roma – fino al 27 maggio – presso il Teatro Manzoni di Via Monte Zebio. Una rassegna costituita da sei film di giovani autori che raccontano una Cina diversa, variegata e imprevedibile. Documentari che portano lo spettatore alla scoperta dei molteplici volti della Cina, un Paese conosciuto (e anche sconosciuto) cui oggi si guarda con poca curiosità e spirito di osservazione. I protagonisti dei sei documentari scelti per questa retrospettiva vengono da contesti totalmente differenti, proprio a dimostrazione della vastità di storie, culture e necessità che si possono trovare e incontrare nello stesso territorio. A raccontarci qualcosa di più di AltreCine è Barbara Alighiero, giornalista e sinologa. 

Esiste un filo rosso che lega i film della rassegna?
Sono tutti film indipendenti. Sono realizzati da giovani registi che lavorano in Cina e anche in istituzioni pubbliche, però questi documentari sono fatti e finanziati da loro in maniera del tutto autonoma e toccano argomenti che sono abbastanza sensibili. “La nostra macchina del tempo” di Yang Sun e Leo Chiang racconta del rapporto tra padre e figlio nella Shangai più industrializzata, ed è un rapporto che riguarda il momento in cui il genitore si ritrova con l’Alzheimer e il figlio cerca di recuperare la sua memoria costruendo straordinarie marionette-robot che poi si muovono nell’ombra. Un racconto molto bello e poetico. Gli altri film toccano invece argomenti che volendo possono essere considerati molto delicati.  

Ad esempio?
“Madame Duan” di Zhang Weixiong parla degli immigrati, e cioè dei contadini che lasciano i loro villaggi per andare a lavorare nelle città facendo anche lavori molto umili, con la speranza di dare un futuro migliore ai figli che, però, sono costretti a rimanere nei villaggi con i nonni. Nel film c’è quindi la sofferenza della separazione e il vivere in condizioni molto povere. Tutti i film della rassegna raccontano e mostrano qualcosa di molto diverso dall’immagine che ci viene offerta, anche in maniera molto superficiale dall’informazione, della Cina: quella che vediamo spesso è infatti la Cina di Shanghai o di Pechino, dove c’è una certa ricchezza, mentre poi c’è oltre un miliardo di persone che vive in condizioni molto diverse e disparate. 

Come suggerisce il titolo della vostra rassegna, sono più e tantissimi i volti di questo Paese. Un Paese molto stratificato culturalmente e politicamente… Sì, infatti questi documentari racconta un’altra Cina. C’è un film che mostra la politica del figlio unico, una politica imposta negli anni ’80 per il controllo delle nascite (“La sorella maggiore di Zheng Long”), poi ce n’è un altro, “Vite nel baratro” di Yao Zubiao, che racconta di un villaggio isolato nello Yunnan, dove negli anni ’50 portavano i lebbrosi, e in cui oggi ci sono 32 persone che vivono come vivevano 100 anni fa e non hanno nessuna voglia di cambiare. 

A chiudere la rassegna c’è “La foresta dei mantelli rossi”, che ci porta in Tibet…
Un film di Jin Huaqing, un racconto molto bello anche visivamente, in cui la cinepresa fa una incursione in un monastero che accoglie 10.000 monache tibetane, quindi buddhiste.  

Da quali contesti arrivano i registi di questi documentari?
Sono registi che arrivano da posti diversi, che hanno una formazione diversa. Xiao Xiao, il regista di “Turtle Rock”, arriva da questo villaggio che ci fa conoscere, un villaggio sperduto sulle montagne di bambù dello Hunan, nel centro sud della Cina. Non vi sono solo registi originari delle grandi città.   

Rispetto al cinema di finzione, quanta libertà c’è nel cinema cinese documentario contemporaneo?
Il documentario è sempre e comunque di nicchia, per cui secondo me c’è più libertà. Inoltre, questa rassegna è stata fatta con La Sapienza di Roma e l’Istituto Confucio per cui ha una sua istituzionalità. Diciamo che il documentario ha un certo impatto sul pubblico rispetto al film di finzione, e poi la stupidità dei censori, cinematografici in particolare, è nota in tutto il mondo e nelle dittature è ancora più forte. Detto questo, in questi documentari non c’è niente che non sia risaputo, niente che non sia conosciuto a tutti in Cina. Sono racconti “locali” di un Paese che è grande quanto un continente e che sono meno conosciuti da noi.  

-Margherita Bordino 

https://teatromanzoniroma.it

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Margherita Bordino

Margherita Bordino

Classe 1989. Calabrese trapiantata a Roma, prima per il giornalismo d’inchiesta e poi per la settima arte. Vive per scrivere e scrive per vivere, se possibile di cinema o politica. Con la valigia in mano tutto l’anno, quasi sempre in…

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