Intervista a Edoardo Purgatori, da Baby a Freaks Out senza mai rinunciare al teatro

L’attore noto per la sua partecipazione alla popolare serie tv “Un medico in famiglia” racconta il proprio percorso ad Artribune

Ogni artista ha qualcosa da dire, da comunicare e che mette in pratica su un palcoscenico o davanti la macchina da presa. O almeno questo è il caso di Edoardo Purgatori conosciuto ai più sicuramente per la sua partecipazione da giovanissimo alla fiction Rai di successo Un medico in famiglia. Edoardo però ha un percorso artistico molto vario che spazia dal commerciale all’indipendente al personalissimo gusto di fare ed esprimersi. Tra teatro, serialità e cinema ci ha raccontato i suoi prossimi progetti!

Così giovane e con un curriculum artistico così vario… cosa deve avere un progetto per essere accattivante?

Beh ho capito una cosa dopo Un medico in famiglia: potevo o lavorare a una serie di progetti che mi davano visibilità e mi facevano guadagnare molto bene ma che artisticamente non mi soddisfacevano a pieno, o dedicarmi a progetti per me fondamentali. Per questo ho fondato una compagnia teatrale e ho cominciato quattro o cinque anni fa con La forma dell’acqua. In questa stagione abbiamo tre spettacoli su Roma. Diciamo che crescendo sto imparando come scegliere i miei progetti ma prendere ad esempio quanto detto dall’attore britannico Ian McKellen. Lui sceglie in base a tre cose: la storia, il regista e le persone coinvolte nel progetto. Se una delle tre, o due delle tre vanno bene allora è un si. Quest’anno ci sta la fortuna di fare un film al cinema, una serie bella su Netflix, tre spettacoli a teatro.

L’esperienza teatrale in questo momento ti sta dando molta soddisfazione…

Quello che il teatro ti da e che ha la possibilità di fare, è offrire un’esperienza sia agli attori in scena sia al pubblico. Un’esperienza che varia di sera in sera, mai la stessa, sempre unica. Il teatro il più delle volte è catartico, sana delle ferite, consente di fare un viaggio che permette di cambiare. Certo, anche i film e il cinema hanno questo potere però a teatro resta il fatto che tu sei lì, in un luogo in cui si percepisce una sospensione della realtà da parte di entrambi.

Sei appena stato in scena con un videogioco…

Il 20 novembre abbiamo debuttato al Teatro Belli di Roma con Killology, un testo potentissimo, un vero pugno allo stomaco, scritto molto recentemente da Gary Owen. Al centro della storia c’è un videogioco, appunto Killology, che non esiste nella realtà ma che ricorda quella serie di giochi ultra violenti. Per vincere infatti bisogna essere bravi nel torturare le proprie vittime. Il racconto segue tre personaggi, Paolo, Alessandro e Michele. Sono un ragazzo, un padre e un giovane uomo. Le loro storie si incrociano grazie a questo videogioco e il testo sviscera temi come il rapporto padre-figlio, i rapporti umani in generale e la violenza dei giorni nostri.

Col nuovo anno ti troveremo ancora in scena a Roma. Che tematiche affrontano questi testi?

Dal 31 gennaio al 17 febbraio 2019 sarò in scena con Fuorigioco, un testo che abbiamo già fatto lo scorso anno e che racconta di un calciatore omosessuale. Un campione alla Ronaldo per intenderci… Pallone d’oro, bravissimo, grandissimo successo che però essendo omosessuale ha un po’ di problemi. Ancora oggi l’omosessualità nel calcio è un grande tabù. Fuorigioco è un progetto che facciamo con Amnesty International e con il patrocinio del Coni. Ci teniamo come compagnia a fare cose che siano attuali e che possano non solo portare la gente a teatro per un’ora e mezza di svago ma per cercare di smuovere le loro coscienze su tematiche importanti. Poi a marzo sarò in scena con Loose ends, un vero esperimento. A collaborare siamo io, Iacopo Olmo Antinori, Marina Occhionero ed Ermanno Quaranta.

Di che si tratta?

È un progetto nato con la voglia di metterci alla prova, di vedere se si riesce a fare un testo generazionale. Un po’ come nel cinema è avvenuto con il film Il grande freddo che parla di una generazione, di come questa è cresciuta. Loose ends è un testo ambientato in un appartamento di Roma, quello di Giulio – il mio personaggio -, uno spacciatore figlio di un regista importantissimo, nato e cresciuto nella cultura e che vive questa pressione del padre che è così grande, presente e onnipresente anche nella sua assenza. Un ragazzo che non ha limiti anche a causa della non vicinanza della famiglia. Nel testo si seguono i personaggi in due giorni in giro per la città con una valigetta con dentro 50 mila euro con cui provano a svoltare.

Oltre a recitare scrivi anche questi testi?

Scrivere è così difficile che io non potrei mai dire che scrivo però sono bravo a fare da editor. Mio padre e mio fratello da sceneggiatori scrivono molto ma io non ho mai imparato, non mi appartiene. Sono bravo a livello di struttura per cui se c’è qualcuno che scrive io posso mettermi lì a dargli una mano, dargli degli spunti.

Allontanandoci dall’esperienza del palcoscenico, ti spettano due momenti importanti tra serialità e grande schermo. Che personaggi interpreti?

Il 30 novembre esce su Netflix la serie Baby, diretta da Andrea De Sica. È un progetto nato da un gruppo di sceneggiatori giovanissimi della scuola Gian Maria Volontè. Loro hanno proposto l’idea a Netflix ed è stata accettata. Veramente un bel messaggio di sostegno a giovani talenti. Baby racconta di ragazzi che vanno a scuola, adolescenti di 16 o 17 anni. Qui il mio è un personaggio tendenzialmente piccolo ma molto figo. Sono il fidanzato giovane di Isabella Ferrari, il cosiddetto Toy Boy. Lei è la madre di una delle due ragazze che poi diventerà una di queste giovani squillo.

Un ruolo importante…

È stato molto bello lavorare con Isabella Ferrari perché viene da un cinema che io amo e che mi appassiona tutt’oggi ed è stata una super professionista. Mentre per quanto riguarda il cinema sono coinvolto nell’opera seconda di Gabriele Mainetti. Questa è una storia pazzesca ambientata durante la seconda guerra mondiale. Il periodo storico è quindi reale e realistico ma come nel precedente film di Gabriele c’è del fantastico. C’è una banda di circensi che sono uno scherzo della natura, appunto Freaks Out. Per una serie di motivi loro vengono cacciati da questo circo durante il periodo in cui i nazisti stanno facendo i rastrellamenti al ghetto e perdono il loro padre, il capo del Circo. A questo punto non gli resta che trovare la via della salvezza sia nazisti sia da una serie di casini che ci stanno in quel momento.

Avete lavorato molto?

È un progetto molto ambizioso e Gabriele è una delle persone più stimolanti che conosco dal punto di vista creativo. Ha portato un genere in Italia che non esisteva. È stato un lavoro lunghissimo, 26 settimane di set. Una produzione veramente mastodontica. Gabriele ha ben chiaro dove sta andando. Ha le capacità, ha il talento per raccontare storie come vuole lui. Sono molto curioso di vedere il risultato finale. Qui interpreto un nazista molto molto cattivo.

– Margherita Bordino

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Margherita Bordino

Margherita Bordino

Classe 1989. Calabrese trapiantata a Roma, prima per il giornalismo d’inchiesta e poi per la settima arte. Vive per scrivere e scrive per vivere, se possibile di cinema o politica. Con la valigia in mano tutto l’anno, quasi sempre in…

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