La 33. Settimana Internazionale della Critica. Intervista a Giona A. Nazzaro

La Settimana Internazionale della Critica, sezione parallela della Mostra del Cinema di Venezia, continua il suo inesauribile processo di ricerca globale di autori esordienti. Il Delegato Generale Giona A. Nazzaro, giornalista e critico cinematografico, al termine di questa 33esima edizione, ci racconta il suo punto di vista sui film selezionati e sulle finalità che ha cercato di perseguire insieme agli altri membri della commissione.

Come si mantiene l’identità di una sezione come la Settimana Internazionale della Critica?

Bisogna premettere che i festival sono cambiati, ma perché è cambiato il pubblico, è cambiato il panorama globale della comunicazione. Basti pensare che un Gian Luigi Rondi anni fa poteva permettersi di inaugurare la mostra con Manoel de Oliveira. Nessuno si sarebbe permesso di dire a Rondi che de Oliveira era una noia mortale. Quando i giurati non vollero vedere “Le Soulier de satin”, Rondi, mi ricordo, si arrabbiò tantissimo e, nonostante fosse una giuria di alto profilo, li sequestrò su un’isola qui di fronte per fargli vedere tutto il film. Oggi sarebbe impensabile. Non perché ci siano direttori meno bravi, ma perché è cambiato completamente il panorama.

Ma come si fa a mantenere l’identità?

Prima di tutto le uniche identità interessanti sono le identità mobili. Le identità che si fermano e che si sclerotizzano sono quelle pericolose, che poi provocano i conflitti identitari noi-loro. Quello che è interessante è avere una idea di identità aperta che si lascia contaminare o, per citare Antonio Moresco, “invitando gli altri a invadere la propria identità”. Da un lato c’è un senso di responsabilità, perché se di guardano i nomi che sono passati da qui ci si rende conto ci sono i cineasti che hanno fatto il cinema degli ultimi 30 anni.  

E ora?

Abbiamo la responsabilità di chiederci se i cineasti che invitiamo saranno, un domani, all’altezza di quelli che li hanno preceduti. Fino adesso abbiamo avuto fortuna perché le nostre scommesse si sono rivelate esatte, però l’identità si mantiene mettendosi in gioco. La mantieni non dicendo prima gli italiani, dicendo prima l’umanità, prima gli esseri umani, prima la dignità, poi tutto il resto. Un paese che mantiene la sua identità dicendo prima gli italiani non mi interessa, così come non mi interessa un cinema che mantiene la sua identità dicendo prima il cinema.

Come si riesce a coniugare questo processo con delle scelte coerenti e qualitativamente valide?

Il mio pantheon cinefilo è formato da Rossellini, Stanlio e Ollio, John Ford, Don Siegel, Raffaello Matarazzo, però quello è il mio gusto e se tentassi di lavorare alla Sic tenendo presente questi punti di riferimento (tranne Rossellini perché non è un cineasta, ma un santo) finirei per essere autoreferenziale. Invece la scommessa è quella soprattutto di ricominciare a imparare ogni volta, se ti trovi di fronte a un film e non lo capisci significa che forse c’è del nuovo. Poi bisogna verificare se quel nuovo è valido oppure no.

Mi sembra calzante in questo senso il film più originale di questo catalogo: ovvero M di Anna Eriksson.

Si parla tanto e forse non nei termini corretti di donne. Quando trovi, però, una donna come Anna, che viene da un altro tipo di carriera (artista multimediale, pittrice, superstar della musica pop), che realizza un film dall’inizio alla fine facendo tutto lei, color correction compresa, ti rendi conto che è un film che ti sfida, che ti mette in gioco anche rispetto alla tua identità di genere, di sguardo maschile. La cosa interessante è che a fine proiezione sono arrivate delle signore di una certa età. Laddove i maschietti li vedevi in un angolo a sorridere e dire “che roba pretenziosa, ma questa è videoarte”, le signore invece avevano capito il film dicevano: “grazie per questo film, finalmente un ritratto umano di Marilyn”.

Ho percepito in questa edizione il piacere di scoprire, di andare in parti lontane del mondo che non si conoscono e guardare con occhi che non sono simili ai nostri. Penso alla commedia africana aKasha.

Il film aKasha nasce da un laboratorio che il regista (Hajooj Kuka) ha fatto in Sudan, dove c’è una guerra civile ferocissima. La parentesi di cui racconta il film, quando si sospendono i combattimenti, è la parentesi in cui il film è stato realizzato. Ajooj racconta il film perché è parte del movimento di guerriglia che lotta contro le milizie integraliste, stiamo parlando di un paese dove il cinema è vietato per legge.

E oggi invece…

Il problema rispetto al cinema africano è che le persone che vanno al cinema oggi non si ricordano come erano i film africani prima che l’intervento europeo si rendesse necessario per permettergli di continuare a esistere in qualche modo. Per cui l’aspetto che si percepisce è di un film fatto male. Ma è esattamente lì che scatta l’interesse, perché un film fatto male significa discontinuità dalla norma. AKashaè un film spiritoso e intelligente che pone una domanda: si possono fare delle cose in maniera diversa?

Anche i film più commerciali, come quello che apre, Tumbbad, che ha un budget diverso dagli altri, non rispettano i canoni a cui siamo abituati, o no?

Premesso che io sono un fan dei film di supereroi. Non lo dico spesso, però sono davvero un fan del MCU, guardo a quei film come a dei documentari sullo stadio dell’industria cinematografica americana. Hanno tutti una stessa idea di fondo cioè che il fantastico per essere tale deve essere realistico, anzi fotorealistico. Anche Thanos che distrugge i mondi lo fa come se fosse in un documentario, e il margine di realtà rispetto a una ripresa di una metropolitana di New York non c’è più. Al cinema si è perso totalmente questa capacità di sospendere, di essere esposti totalmente alla finzione. Tumbbad questa caratteristica ce l’ha perché i pupazzi e i mostri sono chiaramente finti e ti liberano dall’ipoteca della realtà. È un altro mondo, è un altro reale che mi aiuta a recuperare quel senso di meraviglia che avevo quando da ragazzino vedevo i film a passo uno di Alexander Korda.

Adesso non possiamo non parlare del vincitore, Still Recording. Un film fatto col sangue, letteralmente, un operatore è morto, un altro è rimasto ferito nell’incredibile scena finale del film. Un lavoro sorprendente se sai quello che c’è dietro: le 350 ore di girato, il desiderio di innalzare il cinema e l’arte a elemento di salvezza e di verità. Insomma, non poteva non vincere.

Il punto non è neanche la guerra. Il punto è lo sguardo. Dalla Siria sono usciti alcuni dei cineasti più interessanti degli ultimi tempi, basti citare una per tutti Sara Fattahi. Questi cineasti siriani cosa hanno fatto: ci hanno raccontato la guerra? No, hanno fatto qualcosa che in Italia ha fatto solo Rossellini: hanno contribuito a gettare le basi per come si può trasmettere l’immagine di un paese, attraverso uno sguardo. Nel film Still Recordingla cosa che mi ha colpito, è che poi è stata condivisa da tutto il comitato di selezione, è stata che questi ragazzi non si ponevano il problema di raccontare la guerra, si ponevano il problema di raccontare il loro paese attraverso il loro lavoro, attraverso il cinema.

Cosa fare con queste immagini?

Nella conversazione con il pubblico dopo la proiezione, il regista ha detto: “noi non ci siamo mai posti il problema di fare le clip per YouTube, noi volevamo fare un film, fine. Questi ragazzi sono persone che si sono trovati in una situazione mostruosamente più grande di loro, che ancora non è finita, e che si sono posti delle domande che non tutti si sarebbero posti”. E questo è importante.

Mi è piaciuto molto il film italiano. Non me lo aspettavo minimamente alla Sic e addirittura azzardo che forse è il miglior film italiano che ho visto in tutto il festival.

Lo so che magari rispetto al resto del programma potrebbe sembrare una rottura, quasi una frattura. Però era importante segnalare che nel cinema italiano è possibile fare anche altre cose e che si può raccontare al di fuori di quelle che sono le consuetudini del cinema industriale italiano. Saremo giovani e bellissimialla Sic è come se dicesse agli altri autori: se c’è riuscita lei voi potete farlo con le vostre storie e se vi dicono che è fuori dal comune, insistete lo stesso. Sarebbe bellissimo se il film di Letizia avesse un grande successo perché magari domani si potrà fare un’altra cosa ancora.

Per concludere, cosa possiamo dire per tirare le somme di questa edizione?

Un grande risultato sta nel fatto che i nostri film hanno già avuto una vita extra veneziana impressionante: già adesso Tumbbad è prenotato da una ventina di festival da qui a dicembre, M è stato richiesto da altri 4-5 festival, aKasha ne ha una quindicina. E la cosa la si vede in sala: nelle nostre proiezioni abbiamo responsabili, direttori, compratori. Intorno alla Settimana della Critica in questi tre anni si è creata una comunità che guarda a quello che facciamo, esattamente come noi guardiamo a quello che fanno loro. Se hai la fortuna e il privilegio di fare questo lavoro devi prendere dei rischi. Non vuol dire cedere al piacere narcisistico di esibirsi, ma è una sorta di apertura di generosità nei confronti di persone che aspettano di avere una possibilità. Il nostro compito è schierarci dalla parte di chi secondo noi merita di avere un’opportunità.

Margherita Bordino

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Margherita Bordino

Margherita Bordino

Classe 1989. Calabrese trapiantata a Roma, prima per il giornalismo d’inchiesta e poi per la settima arte. Vive per scrivere e scrive per vivere, se possibile di cinema o politica. Con la valigia in mano tutto l’anno, quasi sempre in…

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