Mostra del Cinema di Venezia. Nuovi paesaggi cinematografici

Cosa si rileva di visivamente notevole a due giorni dell’apertura del Festival del Cinema di Venezia? Per esempio che l’uso massiccio di droni ha indirizzato il punto di vista verso altezze e verticali sino ad ora poco frequentate dal cinema: uno sguardo che è perpendicolare alla Terra, un filo di piombo che idealmente congiunge suolo e cielo per centinaia di metri.

LE ALTEZZE VERTIGINOSE DI EVEREST
La scelta di una prospettiva nuova ha anche inevitabili risvolti simbolici, che i registi al Festival del Cinema di Venezia accolgono come inedite occasioni narrative e materiale visivo da plasmare stilisticamente.
Già la pellicola di apertura del Festival ha usato in modo insistente tale possibilità, in questo caso anche per naturali esigenze di copione: Everest di Baltasar Kormakur racconta prima di tutto l’altezza. E se il film è stato giustamente dimenticato a poche ore dalla rutilante macchina da red carpet che ha attivato, accendendo ufficialmente i riflettori sull’edizione numero 72, le altezze no, quelle non dovrebbero cadere nell’oblio. Perché sono la cartina di tornasole di un cambiamento percettivo globale che è arrivato al cinema passando in maniera trasversale dalle sperimentazioni militari agli hobby di adolescenti e pensionati.

Sue Brooks, Looking for Grace

Sue Brooks, Looking for Grace

LE LANDE SCONFINATE DELL’AUSTRALIA
Anche Looking for Grace, film in concorso, ritorno alla regia di Sue Brooks (Japanese Story), è un film aereo. La scena iniziale è la sequenza di una serie di nitide immagini di paesaggio australiano, rarefatte dalla luce e tendenti all’astrazione. Non raccontano semplicemente un luogo, ma sono intimamente connesse al destino dei personaggi. Il territorio con le sue linee e le sue arterie congiunge le vite dei protagonisti, che come formiche si muovono ignari su pattern colorati, impronta e metafora delle loro esistenze.
E la scelta spaziale si lega, in questo film, a quella temporale: la regista sceglie infatti di raccontare la stessa storia, la fuga di una ragazzina adolescente, Grace, dal punto di vista di ogni protagonista, attraverso quindi una modalità diacronica, specchio dei paesaggi frammentati, aerei e interiori, vissuti con conflitto da Grace e dai suoi genitori. Il film non convince del tutto, gli attori, seppure bravi, pagano forse i ritmi di una sceneggiatura troppo dilatata. Peccato perché i dialoghi sono taglienti e curiosi, ma poco serrati, praticamente dieci minuti dei fratelli Cohen diluiti dentro Deserto rosso di Antonioni (che infatti sono tra gli autori preferiti della Brooks).

Cary Fukunaga, Beasts of No Nation - courtesy Netflix

Cary Fukunaga, Beasts of No Nation – courtesy Netflix

L’AFRICA E LE DIMENSIONI UMANE
E se in Everest e in Looking for Grace l’uomo appare schiacciato e persino spiaccicato al suolo, dato che già l’inquadratura lo descrive come perdente perché troppo piccolo rispetto alla vastità del paesaggio; in Beasts of No Nation, straordinario film in concorso firmato da Cary Fukunaga, le proporzioni si ridimensionano e il paesaggio torna ad armonizzarsi con chi lo abita, mentre la sua funzione emotiva non viene meno: l’Africa lussureggiante ed esagerata nella sua spietata bellezza naturale è la controparte naturalistica di istinti e bestialità ancestrali e postmoderni, in cui in maniera sincretica coesistono le guerre tribali e quelle chirurgiche dell’era 3.0. E non è un caso che Fukunaga sia il regista della fortunata serie True Detective e che il film, subito dopo la Mostra, verrà distribuito direttamente da Netflix sulle emittenti tv, saltando la sala cinematografica. Anche questo del resto è il nuovo cinema.

Mariagrazia Pontorno

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