documenta 15: troppo attivismo e poca qualità?

Stanno per terminare i 100 giorni della mostra documenta di Kassel. Ma c’è ancora spazio per le riflessioni. In questa riflessione emerge una domanda: non è che tutto questo attivismo fagocita il valore e il messaggio delle opere d’arte?

Ho visitato documenta a metà agosto, dopo aver letto molto sulla mostra e cercato di dimenticare i commenti negativi raccolti da parte di molti addetti ai lavori. Durante la mia visita sono rimasto colpito dalle ricorrenti modalità di formalizzazione delle opere in chiave aperta, assembleare e collaborativa; ma anche, pur con le dovute eccezioni, dalla scarsa qualità della maggior parte di esse. Il primo pensiero, che in parte tuttora non mi ha abbandonato, è stato che questa documenta è un suk della partecipazione e della retorica, con molte delle opere che appaiono più una conseguenza incidentale che la reale finalità dell’agire artistico. Ma – incredibilmente – leggere la quindicesima edizione curata dal collettivo ruangrupa come una mostra basata sulle opere non è forse corretto. Va vista sotto un’altra ottica, cioè il tentativo di mettere in discussione i paradigmi della produzione artistica di stampo occidentale (capitalista e colonialista) e lo stesso concetto di autorialità. Con quali esiti?

documenta fifteen, OFF Biennale Budapest, Selma Selman, Platinum, documentation of performance, Fridericianum, Kassel, photo Daniele Capra

documenta fifteen, OFF Biennale Budapest, Selma Selman, Platinum, documentation of performance, Fridericianum, Kassel, photo Daniele Capra

DOCUMENTA: UNA MOSTRA DI PRATICHE

Siamo abituati a immaginare una mostra – tanto più nel caso di contesti come Kassel o la Biennale di Venezia – come un’ampia costruzione, insieme visiva e intellettuale, formalizzata nella maniera di un testo argomentativo, originato o sostenuto dalle opere selezionate. documenta fifteen non è invece niente di tutto questo: non è un’esposizione con una tesi, come tra l’altro gli stessi ruangrupa scrivono nel loro saggio (che spesso ha i toni di un manifesto), ma piuttosto un dispositivo concepito per rendere possibili “modelli differenti di creazione delle opere”. Tale modalità collettiva – il tanto menzionato lumbung – è mirata “alla dissoluzione della proprietà e dell’autorialità”, poiché l’individuo e l’individualismo sono, nella visione del team curatoriale, i veri nemici. Le opere esposte in questa edizione di documenta (la maggior parte delle quali realizzate in situ) sono cioè funzionali “alla pratica artistica” di per sé, e sono svincolate da altri scopi, dovendo agire, almeno negli intenti, “nelle vite reali e nei loro rispettivi contesti, senza più perseguire la pura espressione individuale, non avendo più bisogno di essere esposte come oggetti autonomi, o vendute a singoli collezionisti e a musei egemoni sostenuti con fondi statali” (sic!).

documenta fifteen, Dan Perjovischi, 2022, installation, Rainer Dierichs Platz, Kassel, photo Daniele Capra

documenta fifteen, Dan Perjovischi, 2022, installation, Rainer Dierichs Platz, Kassel, photo Daniele Capra

ALLA RICERCA DELL’AURA PERDUTA

Per comprendere come si sono perseguiti tali obbiettivi, risulta significativo leggere nel catalogo ciò che ruangrupa e gli altri collettivi hanno fatto negli scorsi anni. Il testo racconta cronologicamente il processo, incentrato essenzialmente sul confronto tra i partecipanti. Discussioni sulle forme di partecipazione, su come gestire i fondi, la logistica delle persone e dei materiali, la relazione con la città e i suoi abitanti (c’è un coinvolgimento di zone periferiche mai visto nelle passate edizioni), l’uso degli spazi e lo smaltimento dei rifiuti. Si tratta di un modello orizzontale e antiverticista, che nasce a partire dal “rifiuto di essere sfruttati dagli europei”. È questo, in buona sostanza, il vero concept della mostra e le opere passano in secondo piano, essendo solo la “traduzione poetica” del processo. Girando per gli spazi espositivi si avverte che l’estensione orizzontale della partecipazione ha la meglio sulla profondità delle singole opere. Anzi, nella maggior parte dei casi, proprio non si sente la tensione dell’opera, né tanto meno quel calore immateriale che deriva dalla sua necessità: questa documenta è infatti, nei suoi effetti, auraclastica. E così un visitatore di documenta, costretto quasi sempre a essere un lettore (i testi sono però ben scritti), ha la sensazione di trovarsi di fronte a scenografie teatrali e oggetti di scena impiegati in precedenza; o, talvolta, alla confusione di un bazar con dei video che raccontano ciò che è stato. Il processo infatti fagocita tutto a scapito dell’opera, ossia la “traduzione poetica”, la quale, troppo spesso, si scioglie come ghiaccio al sole soccombendo al suo grado più banale: quello di lavoro da bricoleur o di semplice merce esposta. Tanto più quando si lavora in forma politica, realizzare un’opera è invece nella sua essenza una forma di responsabilità da parte dell’artista, sia nei confronti del fruitore che di tutto ciò che pre-esiste.

documenta fifteen, OFF Biennale Budapest, Małgorzata Mirga Tas, Out of Egypt, 2021, installation, Fridericianum, Kassel, photo Daniele Capra

documenta fifteen, OFF Biennale Budapest, Małgorzata Mirga Tas, Out of Egypt, 2021, installation, Fridericianum, Kassel, photo Daniele Capra

ARTISTI E COLLETTIVI A DOCUMENTA 15

Naturalmente non mancano opere davvero incisive, quali le elaborate tappezzerie di Małgorzata Mirga-Tas, gli interventi sul recupero dei metalli preziosi di Selma Selman, le monumentali pitture di Tamás Péli, gli ironici video di Safdar Ahmed sulla detenzione subita in Australia da rifugiato, l’intervento di Dan Perjovschi sul piazzale della stazione, l’installazione della bidonville del Wajukuu Art Project alla documenta Halle oppure il videoracconto di Sebastián Díaz Morales o dei Trampoline Hause, presso la Hübner areal. Vale la pena però sottolineare il fatto che in una rassegna con oltre mille artisti che lavorano in gruppo le opere più significative sono quasi sempre realizzate da singoli: la sintesi formale, espressiva o concettuale le fa in qualche modo “concluse”. Se non abilmente orchestrato l’agire collettivo, che è la lente che ruangrupa usano per la loro proposta, pur garantendo grande pluralità, finisce per fornire un esito generico e spesso fuori fuoco. Leggendo il testo del catalogo si coglie come l’attenzione sia stata data, a parere di chi scrive, eccessivamente ai processi decisionali e alle modalità di distribuzione delle risorse, e poco al lavoro necessario a formalizzare in modo compiuto. L’attivismo ha così quasi annullato la parte artistica.

documenta fifteen, Sebastián Díaz Morales, Smashing Monuments, 2022, video, installation, Hübner areal, Kassel, photo Daniele Capra

documenta fifteen, Sebastián Díaz Morales, Smashing Monuments, 2022, video, installation, Hübner areal, Kassel, photo Daniele Capra

POLEMICHE SU TEMI SBAGLIATI

La polemica gratuita di antisemitismo ha pesato in maniera insostenibile in un Paese come la Germania, e ancora di più nel caso di documenta, nata nel dopoguerra dalla volontà di essere un vero e proprio anticorpo contro il nazismo. Pur impiegando dei facili stereotipi visivi, il murale dai toni grotteschi del collettivo Taring Padi non nasce certo da una prospettiva antiebraica in sé, quanto piuttosto da una critica al ruolo dei molti soggetti che hanno collaborato ai massacri perpetrati in Indonesia dal regime di Suharto, compresi i servizi segreti israeliani. La scelta della sua rimozione dimostra invece come la classe politica tedesca (ma sarebbe potuto accadere ovunque in Occidente), complice la deformazione scandalistica dei media, abbia come priorità mostrarsi vicina a Israele, piuttosto di cogliere il vero intento dell’opera e tutelare la libertà di espressione degli artisti.
Invece la vera polemica andava fatta sulla sostanziale mediocrità dei risultati dal punto di vista artistico, ancora più importante quando si parte dall’ambizione di riscrivere le regole del sistema dell’arte, dalla produzione alle modalità di gestione dei capitali alla politica espositiva (aspetti che, mai come ora, è necessario ridiscutere). Il collettivo curatoriale ha coraggiosamente mirato in alto prendendosi dei rischi, ma il lumbung si è mostrato un sistema operativo ottimo per le dinamiche decisionali, mediocre per i risultati, poiché ingessato, incapace di produrre opere significative e valorizzare il contributo dell’individuo. La sensazione è che l’approccio engagé e attivista abbia ridotto le opere quasi sempre all’irrilevanza, e che l’auspicabile rivoluzione abbia prodotto macerie, non nuove architetture. Fa sorridere inoltre la demonizzazione di alcune delle figure chiave nel sistema dell’arte, come i musei, ma anche collezionisti e gallerie, tratteggiati come dei briganti che trattano loscamente alle spalle: “Abbiamo appreso dallo staff che lavora stabilmente [a documenta], e aveva prodotto le edizione precedenti, che la maggior parte delle opere esposte venivano vendute dietro le quinte dai galleristi durante i cento giorni della mostra e spedite ai collezionisti successivamente”. Cosa c’è infatti di male nel fatto che un collezionista desideri un’opera e che vi sia una vendita realizzata da una galleria che ha sostenuto negli anni l’artista? Inoltre siamo consci che il mercato faccia pressioni. Ma la politica culturale ed espositiva pubblica, o le mostre come documenta, non dovrebbero servire proprio a mediare con proposte che si oppongono a tale forza distorcente?

Daniele Capra

documenta-fifteen.de/

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Daniele Capra

Daniele Capra

Daniele Capra (1976) è curatore indipendente e militante, e giornalista. Ha curato oltre cento mostre in Italia, Francia, Repubblica Ceca, Belgio, Austria, Croazia, Albania, Germania e Israele. Ha collaborato con istituzioni quali Villa Manin a Codroipo, Reggia di Caserta, CAMeC…

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