dedicato ad Alessandro Broggi
Ecco che anche quest’anno dicembre è arrivato puntuale, regalando qualche minuto di luce alle giornate e chiamando a gran voce resoconti e classifiche. La poesia, o meglio i libri di poesia, non fanno eccezione a questa consuetudine che tuttavia può risultare a tratti rischiosa: in pochi ambiti, infatti, si contesta la creazione di liste e consigli d’acquisto come con la poesia. Come se quest’ultima esistesse sempre simile a un’isola in balìa della tempesta, dotata di una purezza primigenia e in quanto tale inclassificabile. E come se a forzarla dentro logiche di mercato le si faccia un affronto o la si corrompa, in qualche modo. Pare, però, che sia stato Pier Paolo Pasolini nel 1971 a ricordare al grande pubblico una verità rivoluzionaria quanto semplice; ovvero che la poesia è per sua natura una merce inconsumabile, e che in futuro morirà tutto, tutto morirà, perfino la società per come la conosciamo, perfino il capitalismo ma non lei. La quale, anzi, resterà intonsa. Proviamo, dunque, a stilare una top 5 (espressione non particolarmente pasoliniana, occorre ammetterlo) di libri di poesia trattando quest’arte sì come una merce, ma una merce eterna; senza timore quindi di ammazzarla né di intaccarne l’universalità.
Quali sono i migliori libri di poesia usciti in Italia nel 2025, i più validi, i più importanti? Un titolo idoneo, per esempio, potrebbe essere Il loro grido è la mia voce – Poesie da Gaza (Fazi Editore), i cui ricavi contribuiscono direttamente a finanziare l’assistenza sanitaria nei territori palestinesi tramite l’associazione Emergency. Giusto per dirne uno. Cercheremo però, come l’anno scorso, di limitarci a libri scritti da autori italiani. Anche se, come vedremo, non sempre riusciremo a rispettare questa consegna. Intanto cominciamo.
Maria Oppo

“Faldone” di Vincenzo Ostuni (Il Saggiatore)
Immaginiamo un libro che sia anche l’opera di una vita, destinata a non essere conclusa mai e chissà quando iniziata, o se ci sia un istante che possa vantarne la creazione. Quest’ambiziosissima “opera-mondo”, di cui l’ultimo volume è uscito quest’anno con Il Saggiatore e il primo risale al 2004, si chiama Faldone ed è scritto (non scriviamo “è stato scritto” perché un passato prossimo non renderebbe giustizia a un testo, come questo, in perenne divenire) dal poeta, traduttore ed editor Vincenzo Ostuni (Roma, 1970). Un testo sperimentale e di ricerca dal livello altissimo, che “raccoglie frammenti di una realtà esplosa e tragica” (così l’ha definita Ostuni stesso in una recente intervista per Lucy – Sulla cultura) e concepito per essere letto come un computer, in orizzontale, come per presentarsi meglio agli occhi del lettore – non sono del resto gli occhi posizionati proprio in orizzontale? – solo un attimo prima di disorientarlo, e di lasciarlo infine con uno sguardo nuovo.
(«Era un illimitato spazio buono, il sollievo di un’indulgenza, questo che si apriva regolarmente, un campo – aperto ai bordi – di accoglienza,
in senso quantitativo, per lo meno; era uno spaglio bonario dei probabili, giocarsi tutto contro niente ma per niente,
o più precisamente il viceversa;
era per noi vedere se andavamo
o non andavamo mai, ma da che parte, se mai qualcuna, se vedevamo
o non vedevamo intorno, sotto, se ascoltavamo la stessa lingua o un’altra, o tutt’e due o nessuna, se annusavamo pseudoricordi nuovi,
vecchi,
mezzi nuovi»).
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“L’Ufficio delle tenebre” di Giorgiomaria Cornelio (Edizioni Tlon)
Gli autori della rivista Nazione Indiana lo hanno definito – ironizzando su un certo suo stare al mondo un po’ trasgressivo – “Il Måneskin della poesia italiana“. Ma al tempo stesso “colto, coltissimo fino al ridicolo“, come ha detto di lui il poeta Aldo Nove. Giorgiomaria Cornelio (Macerata, 1997) è questo: una personalità talmente forte da spiccare in mezzo alla folla, lo studio di Leopardi con la vita di Bukowski, pergamena cosparsa di glitter. La sua ultima raccolta L’ufficio delle tenebre (Edizioni Tlon) viene al mondo chiassosa come l’autore eppure squisita, come una fiaba religiosa e veritiera da indagare senza la pretesa di capire, difficile anche solo da descrivere per chi cerca di recensirla. È per questo, infatti, che per inquadrarla del tutto non posso che rimandare alla lettura di questo libro-cometa nato in un anno buio com’è stato quello appena trascorso. Vedetevela voi, insomma. E buon viaggio.
Eppure, in fondo:
quale generazione
può vivere senza perdonare
quelle precedenti?
Il pegno da pagare è orizzontale.
Si passa, trabocca: ci intaglia un
abbaglio fin dentro la fronte.
È il fetido cimurro, l’olio dell’
unzione, la pulce più vecchia.
Un’era nell’altra, portando l’eredità
come un giaietto:
chi a festa, chi a lutto.
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“Lacrimae Rerum” di Patrizia Valduga (Einaudi)
Padroni della guerra e della morte/che gestite patrimoni di morte/e fate investimenti sulla morte,/cosa posso augurarvi se non morte?
Non serve aprire il libro: già dalla copertina – che come tutti i bianchi di Einaudi riporta una delle poesie della raccolta – Patrizia Valduga (Castelfranco Veneto, 1953) rende chiaro cosa sarà Lacrimae Rerum, ovvero non un fatto conciliante. Schietta e feroce com’è lei nella vita, Valduga torna con una raccolta coerente con i registri delle raccolte precedenti, metricamente raffinatissima come sempre, strettamente ancorata ai fatti di attualità. Un’opera passionale e politica (potrebbe mai la poesia non esserlo?) che dell’eleganza fa una necessità.
Lo sai, è la vita il capitale vero
che fa di ognuno di noi un prigioniero:
vita di noi, minuto per minuto,
quel che si vive, quel che si è vissuto,
vita di noi, la massa dei nessuno…
Non si salva nessuno dei nessuno.
Siamo merce al mercato del virtuale,
noi telecomandati, andati a male…
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“risolza 2001-2025″ di Sergio Garau (Miraggi Edizioni)
Cosa vuol dire esordire dopo venticinque anni di carriera? È il caso di Sergio Garau (Sardegna, 1982), poeta performativo tra i più noti nella scena internazionale; tanto da essersi esibito in ben trentanove stati in tutto il mondo – tra i quali Rapa Nui, la cosiddetta Isola di Pasqua, considerata il luogo abitato più isolato al mondo – senza mai stampare i suoi versi o quantomeno senza rilegarli. Questo fino a maggio 2025, quando per Miraggi Edizioni è uscito risolza, una Babele tascabile dove le lingue parlate dall’autore (nove, nel momento in cui scriviamo) si mescolano con le altre senza alcuna gerarchia. Che nel cuore della narrazione vi sia il dramma delle servitù militari in Sardegna o una rivisitazione parodistica della poetica di Dante oppure ancora un omaggio a una persona che non c’è più, risolza rumorosamente ci ricorda che la poesia dalla carta sa rivendicare una vitalità e un’anima più che mai corporea.
de me bʼest solu
una foto de me in sʼiscuru
deo inoghe no bi so
istada nàschida mai
sas partes de su corpus
iscritas male iscameddadas
su totu no tenet echilìbriu ne unidade
e mègius est de che la bettare custa balla de carre
chena sentidu
nemos acurtzu a mie at potidu seberare mai
mʼant negadu finas sa possibilidade de sʼinferru
atraessant sos muros
sas undas de sas boghes de sos piseddos
sas undas de su trèmer de sas bombas
pro 50.000 èuros sʼora offresi
poligono sperimentale interforze de
Quirra
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“Poesie dell’inizio” di Milo de Angelis (LoSpecchio, Mondadori)
Parlando di “esordi”, nel 2025 è uscito anche il primo (si fa per dire) libro di Milo de Angelis (Milano, 1951). Poesie dell’inizio (Lo Specchio, Mondadori) è più che una raccolta, è un portale sul passato i cui raggi energetici sono le poesie che l’autore scrisse nel 1967-73 e che già lasciavano intravedere voci e ritmi della maturità d’oggi senza tuttavia portarvi alcun debito. Cinquantuno frammenti di un De Angelis appena ragazzo (nel 1967 aveva infatti sedici anni) che ci vengono regalati come un’opera a sé stante, o un micromondo personale. Ci vuole generosità per scrivere poesia, e con Poesie dell’inizio si può dire che l’autore abbia pescato fino in fondo al sacco dei giocattoli.
Essendo lì ma altrove con la pretesa
di altri, immobili intorno, in un territorio
dopo le parole ma prima dell’azione
eppure conta soltanto ciò che accade.
Non ha portato nulla con sé
enfasi piena, scoperta: volevo tanto
essere amato
che mi sembra di amare: dirla, tentarla
una supplica
può riuscire, una supplica
scolta Solange tu capisci tu sei vita; ascolta, vita,
non si può toccarti
e tenterò con la fine: si lascerà fare.
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Bonus: “Indumenti contro le donne” di Anne Boyer, tradotta da June Scialpi (Tic Edizioni)
A dieci anni dalla pubblicazione in lingua originale, Garments against women arriva finalmente in Italia tradotto da June Scialpi ed edito da Tic Edizioni. Si è scelto di includere un testo di un’autrice straniera – Anne Boyer (Topeka, 1973) – al fine di valorizzare una traduzione di cui in Italia si è diffusamente parlato e che dunque una sua importanza l’ha avuta, al di là di chi per prima abbia generato i concetti in essa contenuti. Per il resto, se volessimo avere idea di cosa voglia dire traslare in un’altra lingua un’opera lucidissima sulla fatica di vivere nel reale e un diario metaletterario a metà tra poesia e saggistica, dovremmo sicuramente chiedere proprio a Scialpi – ammesso che le siano rimaste energie per rispondere, ma noi crediamo di sì.
Ogni mattina mi sveglio con un rinnovato
impegno a imparare a essere quello che non
sono. È il giorno in cui cucirò una cucitura dritta,
il giorno in cui taglierò un pezzo di stoffa con
precisione e seguirò le indicazioni scritte dal
creatore del cartamodello: punti fermi, intagli.
Non pretenderò di saperne di più degli esperti.
Stirerò sempre. Smetterò di essere precipitosa,
ribelle, trasognata.
Ogni mattina ecco che arriva il pungolo del
dubbio, le possibilità di un indumento indossabile
si assottigliano.
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