Best of Design. Il meglio del 2025 secondo Artribune
Designer affermati ed emergenti, mostre, libri, operazioni culturali, riedizioni, rigorosamente in ordine sparso: ecco le cose più significative, secondo noi, che sono successe negli ultimi dodici mesi nel mondo del progetto
Si avvicina la chiusura dell’anno e, come sempre, arriva il tempo dei bilanci. Un esercizio difficile di per sé che diventa quasi proibitivo se l’orizzonte è quello di una disciplina dalle tante forme e anime come il design. Ci abbiamo provato comunque, scandagliando gli ultimi mesi alla ricerca delle iniziative che abbiamo trovato particolarmente meritevoli, degli scritti illuminanti e delle persone che si sono distinte attraverso il loro lavoro o dei giovani progettisti che si sono fatti notare in questo 2025. Con uno sguardo rivolto anche all’anno, e ai temi, che verranno.
Giulia Marani e Giulia Mura
Una mostra, anzi due: “La Repubblica della Longevità” alla Triennale e “Prison Times” a Dropcity

Tra le tante mostre viste quest’anno, ce ne sono due che, più di altre, ci hanno fatto pensare. La Repubblica della longevità: In Health Equality We Trust, parte della 24esima Esposizione Internazionale della Triennale di Milano con la curatela di Nic Palmarini e Marco Sammicheli, forse non sarà una mostra di design in senso stretto ma mette il dito su uno dei grandi problemi del nostro tempo che fino a oggi era stato affrontato più come una faccenda individuale (con i classici elenchi delle contromisure o degli stili di vita sani da adottare) che come una questione collettiva, di società, da affrontare anche con le armi del progetto: l’invecchiamento della popolazione, con il capovolgimento della piramide generazionale in una specie di urna appoggiata su una base troppo stretta. A Prison Times – Spatial Dynamics of Penal Environment, allestita durante la design week a Dropcity, sempre a Milano, va riconosciuto il merito di aver messo sotto gli occhi di tutti qualcosa che non si vede mai, a meno di non finire incarcerati, cioè gli arredi delle prigioni, pensati per costringere i corpi e rendere ancora più punitiva una realtà già di per sé difficile. Ridirigendo la riflessione sull’esperienza dei detenuti come persone in carne e ossa e non come numeri buoni per nutrire le statistiche stimolando rigurgiti populisti.
Una risorsa da tenere d’occhio: le microalghe

Rivolgersi a materiali naturali e non estrattivi per produrre le cose di cui abbiamo bisogno cercando di contrastare il cambiamento climatico non è esattamente una novità, ma siamo convinti che sia una tendenza da seguire da vicino anche nel prossimo futuro. Le alghe, per esempio, a lungo bistrattate, oltre a essere una materia prima sostenibile e rinnovabile assorbono anidride carbonica e producono ossigeno attraverso la fotosintesi, rendendosi utilissime in tutta una serie di contesti. Insieme al sale e ad alcune piante tipiche della Camargue, per esempio i girasoli, sono tra le “risorse del futuro” a chilometro zero che si studiano da LUMA Atelier, nei laboratori di ricerca del LUMA di Arles. Come testimonia il lavoro di ecoLogicStudio, che a fine 2024 ha inaugurato una sua antenna italiana a Torino, la nuova Apoteca del Design ricavata in un ex complesso industriale, e che abbiamo incontrato a Losanna durante la Biennale del Solare (link), possono trovare diverse applicazioni interessanti nel spazio domestico, rendendolo “vivo” ed efficiente con i loro processi metabolici.
Uno studio di design: Formafantasma

L’anno era già cominciato sotto i migliori auspici con il Wallpaper Design Award per la mostra La Casa Dentro, che rileggeva il modernismo in chiave femminile e queer facendo un’operazione definita dalla rivista britannica “emozionante, intellettuale e profondamente memorabile”. Nei mesi successivi abbiamo visto il duo di designer veneto-siciliano un po’ dappertutto: nei musei, con allestimenti raffinati dal Vitra Design Museum di Weil am Rhein al MUCIV di Roma, a teatro, con una pièce al Teatro Lirico Giorgio Gaber della quale si è molto parlato durante il Fuorisalone, in Piazza San Marco a Venezia, nei meravigliosi spazi del negozio Olivetti progettato da Carlo Scarpa, con una serie di opere che riprende il tema già affrontato in passato dei rifiuti elettronici, e perfino in libreria, con una favola ecologica incentrata sulla scoperta di forme di vita inaspettate nel sottosuolo. Un’esposizione notevole, sì, ma sempre caratterizzata dalla presenza di contenuti.
Un anniversario: i cent’anni della Wassily Chair di Marcel Breuer

Conosciuta anche come “modello B3”, la Wassily Chair è una delle sedie più iconiche del Novecento e nasce nel 1925 al Bauhaus, dove Marcel Breuer teneva i corsi dedicati alla falegnameria e alla lavorazione del metallo. Il suo materiale principale, il tubolare d’acciaio curvato, incarna alla perfezione l’estetica delle macchine tanto celebrata in quegli anni e offre ai progettisti una grande libertà. Si racconta che l’idea di usarlo per la prima volta per una seduta, dando il via a una vera e propria rivoluzione nel mondo dell’arredo, sia venuta a Breuer osservando il telaio della sua bicicletta, particolarmente leggero e resistente. Da allora, la Wassily ha ispirato generazioni di progettisti ed è stata oggetto di diverse reinterpretazioni e operazioni di redesign: quella nella foto, forse la più affascinante, è di Alessandro Mendini ed è esposta in questo momento all’ADI Design Museum di Milano all’interno della mostra su Alchimia.
Un’operazione culturale: il “ripescaggio” dagli archivi dei progetti di Anni Albers

Rimaniamo, per ora, nell’ambito del Bauhaus. Una delle buone notizie di quest’anno è che si siano riaccesi i riflettori sullo straordinario talento di Anni Albers (1899-1994) e che alcuni pattern da lei ideati in varie fasi della sua vita siano usciti dagli archivi della Josef & Anni Albers Foundation e siano stati prodotti da Dedar con tecniche contemporanee, senza però rinunciare alla fedeltà filologica ai progetti originali. I quali, lo abbiamo visto, non hanno preso una ruga e appaiono ancora modernissimi a decenni di distanza. A confermare che siamo in un ottimo momento per riscoprire gli insegnamenti di Albers, capace prima di chiunque altro di dare dignità artistica – e architettonica – a un’attività tradizionalmente femminile come la tessitura, arriva anche una grande retrospettiva (Anni Albers: Constructing Textiles) al Zentrum Paul Klee di Berna, in Svizzera, con un ricco corpus di opere tra le quali spiccano quelle create per essere integrate nella progettazione di edifici.
Un libro: “Il design come attitudine” di Alice Rawsthorrn finalmente in italiano

Con Il design come attitudine, pubblicato in inglese alcuni anni fa e adesso nell’ottima traduzione di Mariella Milan da Johan&Levi, Alice Rawsthorn propone una lettura che va ben oltre gli oggetti e le forme. Giornalista e critica tra le più autorevoli a livello internazionale, autrice di saggi, di una rubrica settimanale per il New York Times e fondatrice, insieme a Paola Antonelli, della piattaforma di ricerca e podcast Design Emergency, Rawsthorn racconta il design come un atteggiamento, un’attitudine mentale e culturale, capace di incidere sui grandi temi del nostro tempo: dalla sostenibilità all’innovazione sociale, dall’etica delle tecnologie, dall’emergenza climatica alle disuguaglianze alla politica dei processi. Partendo da alcuni pionieri del design, il libro intreccia storia, esempi contemporanei e riflessione critica, mostrando come il design sia sempre più uno strumento di intervento sul reale, piuttosto che una disciplina puramente estetica. “Non è una professione ma un’attitudine”, diceva László Moholy-Nagy (1895-1946) che lottò per liberarlo dalla morsa dell’industria, restituendogli il compito di costruire un mondo migliore. Il design, in tutte le sue molteplici forme, da sempre agisce come agente di cambiamento, facendosi interprete di istanze sociali, politiche, economiche, scientifiche, culturali ed ecologiche. Con uno stile chiaro e divulgativo, l’autrice traccia l’evoluzione e i più recenti sviluppi di questa disciplina anche in rapporto all’arte e all’artigianato, da cui la separano confini sempre più porosi, e a settori come la medicina o la sociologia, a cui oggi offre un prezioso contributo.
Un museo: la V&A East Storehouse di Londra

Si, è vero, questo non è propriamente un museo del design. È molto di più: aperto prima dell’estate nel Queen Elizabeth Olympic Parka di Londra (l’ex Centro Media e Broadcast delle Olimpiadi 2012) su progetto di Diller & Scofidio+Renfro, il V&A East Storehouse rappresenta un salto evolutivo della museografia contemporanea, “né un magazzino né un museo, ma piuttosto un ibrido”. Un museo-deposito di 16mila metri quadrati – che da settembre accoglie anche il David Bowie Centre, nuova sede dell’archivio del Duca Bianco – dove venire letteralmente immersi fra oltre mezzo milione di opere che abbracciano ogni disciplina creativa, dalla moda al teatro, dallo streetwear alla scultura, dalle icone del design ai pionieri della musica pop, grazie ad un intervento di riuso adattivo che elimina ogni filtro tra pubblico e manufatti. Cuore del progetto la Weston Collections Hall: una spettacolare corte coperta, alta 20 metri e illuminata con luce zenitale artificiale, attorno alla quale si affacciano 3 livelli di scaffalature, con 100 mini-display che trasformano i contenitori in dispositivi espositivi e una sezione del pavimento in vetro che permette di osservare i manufatti pesanti conservati nel livello inferiore del deposito. Particolarmente interessanti, a nostro avviso, due dei servizi offerti al pubblico: con Order an Object, si può consultare online l’intero catalogo della collezione, selezionare fino a cinque pezzi e prenotare una visita per osservarli da vicino in una sala riservata del Centro Studi. Mentre gli appuntamenti quotidiani di Object Encounters offrono a piccoli gruppi l’opportunità di scoprire oggetti sempre diversi selezionati dal team del deposito.
Un nuovo spazio, anzi due: Isola Space a Dubai e Roma Spazio Design

Il 2025 ha sancito anche l’apertura di spazi che pur nella loro diversità, faranno la differenza nel luogo in cui insistono, andando a creare nuove polarità per il design di qualità. Ne abbiamo selezionati due. Il primo, a Dubai: concepito come una destinazione dinamica e ibrida, Isola Space riunisce una galleria espositiva, un design store, una caffetteria, aree di lavoro e location per eventi. Primo nel suo genere per il brand e per l’emirato, Isola Space accoglie la design community locale e internazionale in un ambiente che riflette la sua natura trasversale. Situato al The Lana Promenade, Dorchester Collection, a pochi minuti dal Dubai Design District, lo spazio, progettato da Elif Resitoglu, architetta e direttrice creativa di Isola, si colloca all’incrocio tra cultura, design e innovazione. Offrirà, infatti, un palcoscenico a mostre, workshop, presentazioni ed esperienze immersive di design collaborativo. Per inaugurare il nuovo spazio, Isola ha presentato la mostra collettiva Icons of Tomorrow.
Il secondo, più vicino a noi, a Roma, che nell’ultimo anno ha dimostrato una certa vitalità, incredibilmente, anche a favore del design. E così, in quella che era un ex banca in un edificio ottocentesco, progettato da Gaetano Koch su Piazza Cavour e rimasto inutilizzato per anni, grazie all’intervento degli architetti Massimo Adario e Carla Arrabito, da pochissimo ha aperto Roma Spazio Design, showroom di 400 mq su due livelli, curato e gestito da Frattali Arredamenti, con una selezione dei migliori marchi del design italiano e internazionale. La chicca? Il caveau originale della banca al piano -1, mantenuto e trasformato in una “camera dell’oro”, ospita oggi la materioteca fisica e multimediale del negozio.
Un designer emergente: Abreham Brioschi

Nel panorama del design italiano emergente, Abreham Brioschi si sta affermando come una delle voci più interessanti della nuova generazione. Giovane product designer nato in Etiopia e cresciuto sul Lago di Garda, si è formato in Product Design alla Nuova Accademia di Belle Arti. Nel progetto, porta una dimensione narrativa rara, in cui forma e funzione diventano strumenti per raccontare identità, memoria e appartenenza. La sua ricerca nasce dall’incontro tra la formazione occidentale e le radici etiopi, un dialogo che si traduce in oggetti essenziali ma carichi di significato. Sedute, tappeti e arredi assumono una valenza quasi rituale, ispirandosi a elementi della cultura africana, come i poggiatesta tradizionali o i segni corporei delle popolazioni della Omo Valley, reinterpretati con un linguaggio contemporaneo. Progetti come la collezione Burgui – sedute scultoree a metà tra arredo e totem – o i tappeti Danakil per Nodus – rappresentazioni del paesaggio vulcanico in geometrie irregolari e cromie profonde – mostrano una pratica progettuale attenta alla materia e al gesto artigianale, capace di coniugare sostenibilità, ricerca formale e culturale. A poco più che 20 anni, Abreham Brioschi rappresenta una generazione di designer dalla poetica personale fortemente identitaria, capace di combinare narrazione e funzionalità, che guarda al futuro senza rinunciare alle proprie radici, confermando come il design italiano stia trovando nuova linfa proprio nelle contaminazioni culturali.
Una tendenza/tormentone: L’AI, Persona dell’anno per il Time

“Nel 2025 l’intelligenza artificiale è uscita definitivamente dal recinto tech ed è diventata infrastruttura quotidiana: nei servizi, nel lavoro d’ufficio, nella scuola, nella creatività., nella scienza. Non a caso Time ha scelto gli “Architects of AI” come Persona dell’Anno 2025, riconoscendo l’impatto – nel bene e nel male – di chi ha immaginato, progettato e costruito i sistemi che oggi guidano una parte crescente delle nostre decisioni e dei nostri flussi informativi”. La decisione di eleggere Mark Zuckerberg, Lisa Su, Elon Musk, Jensen Huang, Sam Altman, Demis Hassabis, Dario Amodei e Fei-Fei Li arriva in un anno in cui l’impatto dell’AI sulle nostre vite è diventato impossibile da ignorare. La rapidità di accelerazione con cui l’intelligenza artificiale è diventata parte di ogni processo, nel 2025 è stata, infatti, impressionante: quasi ogni settore e comparto, oggi utilizza programmi e strumenti generati da AI. Le applicazioni più avanzate hanno velocizzato la ricerca medica, migliorato la produttività, la rapidità di calcolo e sistematizzazione, risolto problemi considerati irrisolvibili, aperto orizzonti che fino a pochi anni fa sembravano fantascienza. Nella filiera del design, l’effetto è stato ancora più visibile perché l’AI ha agito su più livelli contemporaneamente: in fase di concept, i modelli generativi hanno accelerato brainstorming e ricerca visiva, più varianti, in meno tempo, con la possibilità di “conversare” con reference, moodboard e progetto. Nello sviluppo, strumenti capaci di tradurre prompt e schizzi in render, layout e prototipi hanno ridotto il costo dell’iterazione, spingendo team piccoli a competere con strutture più grandi. E a valle – nella comunicazione, nell’e-commerce, nella personalizzazione – l’AI ha reso scalabili contenuti e adattamenti (lingue, formati, micro-campagne). Potenzialità infinite, ma anche, alcuni rischi, anche etici, da tenere in considerazione. La differenza, nel 2026 che già bussa alla porta, la faranno governance dei dati, trasparenza sugli strumenti e una nuova alfabetizzazione: non “saper usare” l’AI, ma saper decidere quando non usarla.
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati