La moda è anche politica e Rama Duwaji, moglie del sindaco Mamdani, ce lo conferma 

Dalla first lady newyorkese Rama Duwaji al bagliore pasoliniano di Valentino, dalla protesta di Willy Chavarria alla sobria resistenza di Prada. La moda contemporanea torna ad essere linguaggio politico, corpo collettivo e gesto di libertà

Nell’epoca della comunicazione immediata e delle immagini virali, la moda è diventata una delle arene più efficaci per veicolare messaggi politici. Non è più soltanto estetica, ma linguaggio, manifesto, resistenza. Se un tempo i tailleur di Chanel e gli abiti di Armani rappresentavano il potere istituzionale, oggi sono le nuove generazioni di designers e personaggi pubblici a utilizzare la moda come strumento di affermazione identitaria e politica. L’esempio più recente arriva da Rama Duwaji, artista e illustratrice siriano-americana, neo-First Lady di New York, che con una scelta sartoriale ha espresso una dichiarazione di pace e appartenenza culturale. Ma lo stesso discorso attraversa la poesia visuale di Valentino, la denuncia sociale di Willy Chavarria e la riflessione femminista di Prada: quattro linguaggi diversi per una stessa esigenza di autenticità e presa di posizione. 

Rama Duwaji e la moda come forma di attivismo 

Nel suo debutto accanto al neosindaco Zohran Mamdani, Rama Duwaji ha scelto un completo che è molto più di un look: è un messaggio politico. Il top ricamato del designer palestinese-giordano Zeid Hijazi, ispirato al folklore palestinese e alla resistenza culturale, dialoga con la gonna in velluto nero di Ulla Johnson in un equilibrio di forza e sobrietà. Nata a Houston nel 1997 da genitori siriani e cresciuta tra Dubai e New York, Duwaji è la prima first lady della città appartenente alla Gen Z — e incarna una nuova idea di rappresentanza femminile, cosmopolita e consapevole. Illustratrice e artista visiva, ha costruito la propria identità attraverso immagini che raccontano migrazione, resilienza e autodeterminazione delle donne mediorientali. Anche nei momenti più personali, come i due matrimoni celebrati a Manhattan e a Dubai, la sua estetica ha parlato: abiti semplici, minimali, ma intrisi di significato culturale. Lontana dai riflettori e dalle narrazioni da First Lady, utilizza i social come estensione del suo lavoro artistico più che come vetrina privata, trasformando la discrezione in una forma di coerenza politica. La sua apparizione al Brooklyn Paramount, con un look costruito su una sartorialità identitaria, diventa così un atto di attivismo estetico: un gesto di solidarietà verso la Palestina e, più in generale, un invito a leggere la moda come spazio di verità e giustizia sociale. 

Fireflies, Alessandro Michele per Valentino, primavera-estate 2026
Fireflies, Alessandro Michele per Valentino, primavera-estate 2026

Valentino “Fireflies” e la luce della disobbedienza 

A conferma del legame tra moda e politica, ci sono le sfilate. Infatti, con la collezione primavera estate 2026, Alessandro Michele da Valentino ha portato in scena una sfilata che è anche un manifesto culturale antifascista. Con Fireflies – lucciole, come quelle che Pier Paolo Pasolini evocava per denunciare l’omologazione culturale – Valentino si fa portavoce di un’estetica della resistenza. Le giacche embroidered e i ricami dorati diventano metafora di una luce collettiva che resiste al buio del conformismo. Michele cita la teoria di Georges Didi-Huberman, secondo cui “servono cinquemila lucciole per fare la luce di una candela”: un invito alla pluralità. In tempi in cui la politica tende a uniformare e semplificare, la moda di Valentino propone invece la complessità come atto politico. Ogni dettaglio – dalle piume leggere ai voiles trasparenti – diventa linguaggio poetico e dissenso estetico.  

Willy Chavarria e la moda come denuncia collettiva 

Invece, attraverso la collezione primavera estate 2026 presentata a Parigi, Willy Chavarria trasforma la passerella in un rituale di memoria e protesta. Uomini comuni, vestiti di bianco e inginocchiati in cerchio, evocano le immagini dei detenuti nei centri ICE americani. La sfilata si trasforma così in un momento di raccoglimento collettivo, una liturgia laica che intreccia fede, folklore e denuncia. Designer americano di origini messicane, Chavarria costruisce una narrazione che supera l’estetica del lusso, riportando la moda alla sua dimensione umana. La vulnerabilità dei corpi diventa il suo manifesto politico. In un sistema che tende all’esclusione, il suo gesto apre lo spazio dell’empatia e della memoria. 

Prada e la femminilità come atto di resistenza 

Poi, nel calendario milanese, Prada firma una delle collezioni più politiche degli ultimi anni, pur senza proclami. L’autunno inverno 2025 2026, presentata alla Milano Fashion Week, riflette – come ha detto Miuccia Prada – “un momento molto nero per il mondo”. Accanto a Raf Simons, la designer rilegge il mito del little black dress come simbolo di potere e sobrietà. I capi non abbracciano il corpo, ma lo liberano: tagli destrutturati, cuciture a vista, proporzioni volutamente imperfette. “Liberarsi è già un atto di resistenza”, ha dichiarato Simons. La collezione celebra così la libertà di movimento come gesto politico e la femminilità come forza autonoma. Un invito a resistere con eleganza, a vestirsi di senso in tempi oscuri. Perché oggi la moda è anche politica.  

Gaia Rotili

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