Arte e Musica. Intervista alla “onewomanband” Elli de Mon
Un ritratto della songwriter, cantante, polistrumentista e scrittrice italiana Elli de Mon che si è fatta le ossa sui palchi internazionali con un sound nutrito principalmente di garage blues e psichedelia indiana

Elli de Mon, nome d’arte di Elisa de Munari, è una songwriter, cantante, polistrumentista e scrittrice italiana che si è creata negli anni un fertile percorso soprattutto come onewomanband. Presente su palchi internazionali con un sound nutrito principalmente di garage blues e psichedelia indiana, ha all’attivo una vasta produzione avviata nel 2013. Il riconoscimento si è consolidato con gli album Countin’ the Blues (2021), incentrato sulle regine del blues degli Anni ’20, e Pagan Blues (2023), entrato nelle classifiche inglesi.

Elli de Mon: la nuova formazione e la scelta di tornare all’italiano, in particolare al dialetto vicentino
Nel 2025 la pubblicazione con Rivertale Productions dell’album Raìse, dove Elli abbandona la lingua inglese con cui si è sempre esibita, per il dialetto vicentino, la lingua del suo paese natio Santorso, alla cui leggenda si ispira l’intero concept. L’artista amplia qui il suo organico, utilizzando accanto alla voce, chitarre, percussioni, batteria, harmonium, dilruba, sitar e archi, soprattutto il contrabbasso, strumento in cui è diplomata, e affiancandosi ai musicisti Marco degli Esposti e Francesco Sicchieri. L’album si muove tra folk, gospel, stoner, e tinte gotiche, a conferma di un’ampia veduta che riesce a focalizzare uno stile personale oltrepassando i confini dei singoli generi musicali, e riceve un’ottima risposta da stampa e pubblico. Sempre nel 2025 il coinvolgimento con Litania, una nuova formazione etno-doom formata da Elli de Mon, Marco Degli Esposti, Enrico Baraldi e Vladimir Marikoski (The Black Heart Procession). Il primo album, dal titolo omonimo e ispirato alla musica indiana, sarà pubblicato nell’ottobre 2025 con Heavy Psych Sound Records e Subsound Records. L’artista è attiva anche come scrittrice con le pubblicazioni Countin’ the blues – donne indomite(Arcana Edizioni, 2020), Murder Ballads (Edizioni LaGru, 2022), La settimana della banana (Edizioni Underground, 2023), dedicata alla band statunitense Velvet Underground, e Raìse (2025).
Intervista a Elli de Mon
La tua definizione di arte?
È il contrario della decorazione. Non serve a riempire i vuoti dei salotti, ma quelli dell’anima, è quel gesto inutile che però ci salva. È la forma più nobile di resistenza contro l’omologazione, contro l’addomesticamento delle emozioni, contro la dittatura del silenzio. È un atto politico, perché parla anche quando tutto intorno tace, e soprattutto quando farlo costa caro. Per me l’arte è il passaggio da una ferita individuale a un senso collettivo. È quando il tuo dolore diventa mio, quando la tua gioia accende la mia, quando mi fai vedere con occhi che non avevo.
La tua definizione di musica?
La musica è un atto di fiducia nel silenzio. È quel momento in cui, anche se sono sola, non mi sento mai veramente sola.Suonare, per me, è un dialogo senza parole, una preghiera laica, un modo per restare in contatto con qualcosa di più grande, è un modo per connettermi. È un respiro condiviso perché la musica non è solo un suono: è ascolto. È fatta di note, ma anche di pause e ti insegna ad aspettare insieme il momento giusto. Per questo è un ponte invisibile tra le persone, tra i pensieri, tra le emozioni.
Ti definisci una “artista”?
No. Preferisco chiamarmi artigiana, è un gesto di precisione, di onestà. Ogni giorno mi applico con cura, come chi lavora il legno o il pane. L’arte è il mio materiale, ma io non mi illudo di esserne padrona. Per me essere artista richiede una visione, qualcosa che sappia tenere insieme il personale e l’universale con una chiarezza quasi profetica. Per questo gli artisti veri sono pochi, non basta lavorare con l’arte per esserlo, così come non basta maneggiare parole per essere poeti. Spesso mi sento priva di quella visione. Cammino, pezzo dopo pezzo, nota dopo nota, dentro i confini del mio mestiere. Lo faccio con amore, ma senza illusioni, con umiltà. Perché l’arte, per me, è prima di tutto un gesto che si offre, non un’identità che si reclama.
L’opera di arte visiva che più ami?
Potrei risponderti con quella che mi ha colpito di più recentemente: le vetrate gotiche della cattedrale di Rouen. Non sono solo immagini: sono visioni scolpite nella luce, una teologia che attraversa il corpo. Raccontano il sacro con ferocia e splendore, mescolando martiri, politica e rivelazione. In quel bagliore colorato, sento che l’arte può ancora essere un rito.
La canzone che più ami?
Domandona quasi impossibile! Dipende da come mi sveglio alla mattina. In questi giorni mi sto svegliando con Venus in furs dei Velvet Underground: decadenza e stile.
I tuoi progetti recenti?
Quest’anno ho dato una svolta al mio progetto solista da onewomanband suonando per la prima volta in trio e soprattutto passando dall’inglese alla mia lingua madre, il dialetto veneto. Il progetto ha assunto tinte più dark, legate molto al suono modale di certa musica tradizionale. Ad ottobre uscirò con una nuova band etno doom, Litanìa, dove mischierò sonorità indostane con riff black sabbathiani.
Un ricordo della tua vita?
I giochi a nascondino nei boschi delle montagne dove sono cresciuta. Ci imbucavamo in anfratti assurdi, le cicatrici sulle mie gambe mi ricordano che ci graffiavamo tra i rovi senza farci caso. Ogni tanto ci spaventava qualche rumore, ma nessuno voleva ammetterlo.
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Samantha Stella
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