Pedagogia teatrale ad alta quota. Il caso della Scuola Nomadica sulle Dolomiti 

La Scuola Nomadica è un progetto di pedagogia che intreccia paesaggio alpino e arti performative. Ne parliamo con il regista Filippo Andreatta, che ne è coordinatore, per scoprire le novità della nuova edizione

Dall’8 al 20 giugno 2025 le Dolomiti del Brenta ospiteranno la sesta edizione della Scuola Nomadica, progetto di pedagogia alternativa “abbarbicato alle Alpi e alle arti performative“. Curato da OHT – Office for Human Theatre, compagnia con sede a Rovereto, il progetto della Nomadic School ha preso vita nel 2020 attorno alla roulotte di Little Fun Palace; “un’architettura nomade e flessibile ispirata al Fun Palace dell’architetto Cedric Price e della regista Joan Littlewood, e costruita da OHT con l’intento di favorire lo scambio tra le persone e colmare la distanza rappresentativa coltivata dalle istituzioni artistiche“. Della Scuola Nomadica e del volume, di prossima uscita, che ne riflette identità e intenti (OHT: A Nomadic Book, a cura di Filippo Andreatta e Sarah Messerschmidt, bruno editore, Venezia), abbiamo parlato con il curatore Filippo Andreatta

Nomadic School © OHT-Little Fun Palace
Nomadic School © OHT-Little Fun Palace

Intervista a Filippo Andreatta 

Come si è trasformata la Scuola Nomadica in queste sei edizioni? 
Si è sviluppata molto assecondando il paesaggio in cui stiamo: lavorando a circa 2mila metri di altitudine e non in una città o in un edificio, abbiamo imparato a creare uno spazio in cui il paesaggio alpino possa diventare più facilmente un “coautore” della scuola. Abbiamo imparato a strutturare la scuola in modo tale che qualcosa di ignoto, che non conosciamo perfettamente, possa diventare parte del programma. Ciò significa, per esempio, accettare le condizioni atmosferiche e acquisire maggiore consapevolezza riguardo questo aspetto. 

Quali luoghi avete attraversato? 
Nei primi due anni il Giardino Botanico Alpino Viote, del MUSE di Trento – che è anche nostro partner del progetto – e successivamente vari luoghi sulle Alpi del Trentino-Alto Adige/Südtirol. 

Quali riflessioni sono alla base delle scelte delle discipline e dei mentor coinvolti? 
Per quanto riguarda le discipline più scientifiche c’è un dialogo proprio con il Muse e dipende dal luogo in cui saremo. Per esempio, siamo stati vicino alle Torri del Vajolet a circa 2500 m., in un paesaggio senza erba, grigio e sassoso, e allora col Muse abbiamo deciso di coinvolgere un glaciologo/geologo. Quest’anno, invece, avremo una meteorologa per approfondire anche il mio interesse per le nuvole. C’è poi un desiderio personale di conoscere il lavoro di altre persone, per esempio lessi un libro sull’eruzione del Tambora che mi piacque moltissimo, quindi scrissi all’autrice, Dehlia Hannah, e la invitai a partecipare come mentor; lei accettò e da quell’incontro iniziò il nostro spettacolo su Frankenstein. Fondamentale, però, è l’equilibrio fra le discipline, cercando di diversificarle ogni anno. Non c’è mai stato un vero e proprio regista, ma tutte e altre discipline che insieme e/o singolarmente possono andare a comporre un’opera teatrale o più performativa. 

Nomadic School © OHT-Little Fun Palace. Photo Andrea Mazzoni
Nomadic School © OHT-Little Fun Palace. Photo Andrea Mazzoni

Chi sono i partecipanti e come avviene la selezione?  
Arrivano ormai da tutto il mondo: riceviamo ogni anno circa duecento application che, per i nostri mezzi comunicativi, è moltissimo. In base a una selezione curriculare, arriviamo a un gruppo di 30-40 persone, che sono tutte “abili” e poi, attraverso dei colloqui, la selezione avviene in base alla sensazione che queste persone ci danno riguardo la predisposizione rispetto all’ambiente in cui andranno a stare. Stare in montagna due settimane, caldo, pioggia; condividere gli spazi in cui si dorme e si mangia, ecc. è un fattore abbastanza importante. C’è, poi, un tentativo di rispettare quella che è l’eterogeneità delle application ricevute, non selezionando solo performer perché noi ci occupiamo di teatro, ma avere anche designer, curatori, studenti, ricercatori… Ultimamente, inoltre, stanno arrivando anche application da attivisti per l’ambiente ma non facciamo alcuna distinzione. Cerchiamo sempre di creare un gruppo equilibrato mantenendo la diversità. 

Esistono limiti anagrafici? 
Un tempo erano principalmente studenti universitari, quindi molto giovani. L’anno scorso, invece, avevamo un gruppo che andava dai 25 ai 38… Non c’è dunque un limite d’età anche se c’è una fascia prevalente. 

In che modi i partecipanti restituiscono l’esperienza vissuta? 
Ogni anno facciamo delle feedback session con i partecipanti, chiedendo loro come sono stati percepiti gli intenti della scuola. Ascoltandoli, per esempio, abbiamo aggiunto più tempo in cui i partecipanti fanno una condivisione delle loro pratiche. Abbiamo anche capito che dovevamo includere delle passeggiate, un tempo più aperto per stare nel paesaggio. Abbiamo aggiunto anche un giorno completamente libero in cui, alla fine, ci dividiamo in gruppi e andiamo a camminare. Finita l’esperienza, poi, alcuni dopo qualche mese ci scrivono indicandoci possibili mentor poiché noi chiediamo loro di consigliarci qualche nome. Non c’è, invece, una restituzione vera e propria poiché non chiediamo niente ai partecipanti: la scuola nomadica vuole essere un periodo libero di apprendimento, non produttivo. Adesso stiamo però invitando i vari “nomads” a venire nei nostri spazi di OHT a Rovereto a fare dei periodi autonomi di ricerca.   

Nomadic School © OHT-Little Fun Palace
Nomadic School © OHT-Little Fun Palace

La Scuola Nomadica promuove uno scambio/dialogo fra discipline anche apparentemente distanti: una pratica che credi possa diventare un modello diffuso anche nel nostro paese che, ancora, pare amare gerarchie e divisioni anche nell’ambito di una stessa area, pensiamo alle stesse arti performative… 
Per me non esistono categorie e trovo molto “noiose” le definizioni rigide poiché parliamo di componenti che fanno parte tutte della creazione delle arti performative. L’immaginario della Scuola è più legato al concetto di paesaggio: spesso se ne parliamo nei termini di “design involontario”, quando hai un insieme di creature (piante, insetti, ecc.) che, ciascuna per conto proprio, vanno a creare un paesaggio che guardi e che improvvisamente sembra avere un senso collettivo, organico. Questa idea, sviluppata da un’autrice forse sovra-citata come Anna L. Tsing, è molto bella ma è anche quello che sono da sempre le arti performative, fin dal Gesamtkunstwerk.   

Com’è nato il progetto del libro e com’è strutturato? 
Il libro uscirà il 27 maggio e abbiamo fatto la prima presentazione in forma di pic-nic in un parco di Bruxelles in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti e ne faremo altre a Berlino, Rotterdam e il 31 maggio a Venezia da bruno, il publisher del libro. 
Il libro ha la stessa natura della Scuola Nomadica, con più voci e dunque persone coinvolte, sia mentor che ex-partecipanti. L’idea è la stessa alla base della condivisione con i mentor, cioè pensare alla parola paesaggio nella propria pratica, in quello che si fa. Nel libro ci sono sia persone che hanno ricordato quanto fatto durante la Scuola Nomadica, sia chi ha fatto qualcosa di totalmente distaccato. Non è quindi un libro “autocelebrativo” dei cinque anni della scuola ma allarga i confini di quanto abbiamo fatto. Per esempio, Dehlia Hannah ha scritto un testo sul “burro” molto bello… I ventidue contributi sono dunque molto diversi, anche nel formato oltre che nel contenuto: l’antropologo Annibale Salsa ha scritto un saggio sulla storia culturale delle Alpi mentre il geologo Christian Casarotto ha fatto praticamente un saggio di coreografia geologica, ci sono poi poesie fino a racconti più puntuali degli esercizi fatti, disegni e le fotografie di Giacomo Bianco. 
 
Laura Bevione 
 
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Laura Bevione

Laura Bevione

Laura Bevione è dottore di ricerca in Storia dello Spettacolo. Insegnante di Lettere e giornalista pubblicista, è da molti anni critico teatrale. Ha progettato e condotto incontri di formazione teatrale rivolti al pubblico. Ha curato il volume “Una storia. Dal…

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