Le mille e una Vieira da Silva. In mostra alla Guggenheim di Venezia
Drammaticamente sconosciuta al grande pubblico, Maria Helena Vieira da Silva è stata una delle pittrici che ha meglio interpretato la scomposizione e la moltiplicazione spaziale del Novecento. Ed è protagonista di una bella mostra alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia

“Vieira, Multiple et Une”. Così il poeta René Char definisce la pittrice Maria Helena Vieira da Silva, sua cara amica. E la nuova mostra della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia non gli dà torto: nelle sale espositive di Palazzo Venier dei Leoni, Flavia Frigeri ha curato un prezioso affondo nell’arte di un’artista ancora troppo sottovalutata, ma capace di declinare una ricerca estetica e spaziale non del tutto incasellabile, mutevole eppure estremamente coerente. Cominciata a Lisbona nel 1908 e conclusasi a Parigi nel 1992, la vita di Vieira da Silva ha coperto tutto il Novecento, negli stravolgimenti e nelle tragedie che ne hanno caratterizzato la proverbiale “brevità”. Sempre muovendosi con libertà sulla soglia tra figuratività e astrazione, le opere di Vieira da Silva sono testimoni di un’importante sensibilità artistica, in grado di interpretare il Modernismo senza mai cristallizzarsi o ripetersi, a partire dai primi dipinti, fino a un utilizzo sempre più libero della griglia, che caratterizza gli ultimi decenni della sua pratica.

Maria Helena Vieira da Silva, tra spazio e anatomia
Già dalle prime sale, appare chiara la scelta di intitolare questa necessaria retrospettiva Anatomia di uno spazio: la modalità con cui Vieira da Silva decide di rappresentare il suo mondo, è quella della sua frammentazione in piani che si incastrano, come le tessere di un mosaico, senza gerarchie di sorta. Se infatti è lo spazio il protagonista evidente di questa dissezione, Vieira da Silva tratta nel medesimo modo tanto gli oggetti, quanto la figura umana. Due attitudini, quella anatomica e quella spaziale, la cui origine è da ricercare anche nella formazione accademica di Vieira da Silva: più volte ricorderà quelle folgoranti lezioni di anatomia alla Escolas de Belas Artes, e le numerose ossa che si dilettava a disegnare; l’attenzione per lo spazio, invece, è riconducibile agli studi di scultura a Parigi, dove si trasferì nel 1928, prima di dedicarsi del tutto alla pittura, e trasformare il tridimensionale in bidimensionale. È così che tutto diventa spazio, e tutto appare e scompare costantemente all’interno di vortici caleidoscopici. È il caso del vivace dipinto Il gioco delle carte (1937) – mutuato dal celebre dipinto di Cézanne, che anticipava già una scomposizione cubista da cui Vieira da Silva attinge – o del più inquietante La Scala o Gli occhi (1937), che sembra prefigurare la celebre e occhiuta scenografia di Dalì per il film Io ti salverò di Hitchcock (1945).

Vieira da Silva: il Brasile e la guerra eterna
Ma è durante la Seconda Guerra Mondiale che Maria Helena Vieira da Silva dipinge alcuni dei suoi quadri più belli e struggenti. Una guerra che, nelle sue opere, non appare mai nella sua contingenza, ma come tragedia universale, come dramma umano senza tempo. Già nel 1938, con il dipinto Gli annegati, Vieira da Silva consegna a ventri gonfi, corpi scheletrici e pennellate allungate il compito di raccontare un clima sempre più difficile nella città che da dieci anni l’aveva accolta. L’anno seguente, la minaccia tedesca la spinge quindi a lasciare Parigi insieme suo marito Arpad Szenes, pittore ungherese di origini ebraiche, per fare ritorno nel natìo Portogallo. Una tappa intermedia, prima della destinazione finale: Rio de Janeiro. È da qui che Vieira da Silva seguirà lo svolgersi della guerra: al sicuro, certo, ma dolorosamente lontana dalla sua casa. La distanza, l’apprensione e un clima mal sopportato le rendono il Brasile estremamente grave, tanto da portarla a una profonda depressione e a un tentato suicidio. Ma, come spesso accade, non sono necessari i dettagli biografici per capire quanto questo periodo sia stato difficile per Vieira da Silva: i dipinti narrano più delle parole, con quelle figure filiformi che diventano tragicamente una cosa sola con le fiamme (L’incendio I e II, 1944) o con le lance (Il disastro, 1943), in una rilettura profondamente novecentesca di un già modernissimo Paolo Uccello, ammirato probabilmente durante il Grand Tour italiano che l’artista ha compiuto nel 1928. Nel confronto con le opere del passato, la rappresentazione che Vieira da Silva fa della guerra supera l’attualità e diventa astorica, esistenziale e drammaticamente eterna.

Di città e di griglie. Vieira da Silva nel secondo Novecento
La fine del conflitto e il ritorno dei due coniugi in Europa segna l’inizio di un nuovo periodo per Vieira da Silva, a livello sia privato sia lavorativo. Arrivano le prime monografie, le sempre più numerose esposizioni e soprattutto le due partecipazioni alla Biennale di Venezia, nel 1950 all’interno del padiglione portoghese e nel 1954 in quello francese. Nel 1959 espone alla seconda edizione di documenta a Kassel, dove tornerà per l’edizione successiva, nel 1964. Sono anni di grandi riconoscimenti internazionali per Vieira da Silva, che torna prepotentemente sulla frammentazione dello spazio, questa volta esplicitamente urbano. Le opere che realizza nel dopoguerra, infatti, si caratterizzano come vedute cittadine, talmente esplose da essere appena riconoscibili. Vieira da Silva percorre così la strada di una personalissima astrazione, interpretando in mille modi quella griglia che nel 1979, sulle pagine di October, la critica d’arte Rosalind Krauss assurge a manifesto ultimo dell’arte moderna. Quella stessa griglia che trova le sue radici nell’archetipo della finestra, per poi rivelarsi in Mondrian e confluire in Agnes Martin, Vieira da Silva la fa sua, la stravolge, l’afferma e la nega, fino alla fine.
Una retrospettiva nella retrospettiva
Si chiude con una chicca questa mostra veneziana, che poi viaggerà a Bilbao per aprire in autunno nella sede spagnola dell’impero Guggenheim: l’ultima sala, per citare la curatrice, è una “retrospettiva nella retrospettiva”. Riunite in un unico ambiente, opere di diversi periodi cronologici e stilistici dell’artista danno vita ad una soddisfacente antologia, ma con una peculiarità: tutte le opere sono modulate sulle variazioni del bianco, il colore preferito di Vieira da Silva. Una chiusura armonica e completa, capace di raccontare ed elevare tutte le multiple anime di una pittrice piacevolmente (ri)scoperta.
Alberto Villa
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