Conversazioni di architettura. Tutti possiamo fare i critici

Nella Nona Conversazione, Luigi Prestinenza Puglisi ci invita a riflettere su come la critica, anche nel campo architettonico, sia una facoltà innata nell’uomo e che anche oggi può essere da noi esercitata in autonomia. Soprattutto grazie ai nuovi social media

Il tema che vorrei affrontare in questa nona lezione è piuttosto controverso. Lo possiamo sintetizzare così: dobbiamo o non dobbiamo affidare a chi è più competente di noi, e cioè ai critici, il nostro giudizio sull’architettura?
Insomma, se vi dico che Zaha Hadid è una brava architetta, mi dovete dare retta perché a dirvelo sono io, che faccio il critico da una trentina di anni? Vi anticipo la risposta: non mi dovete dare retta. Non, necessariamente. La critica, così come il pensiero filosofico è infatti una facoltà che abbiamo tutti noi e che, giustamente, non amiamo delegare. Ci piace leggere cosa ha scritto Bruno Zevi su Frank Lloyd Wright, così come sapere cosa abbia pensato Immanuel Kant della morale e dell’imperativo categorico. Ma, poi, vogliamo essere noi ad esprimere il verdetto definitivo. Chi se ne frega cosa abbiano detto Zevi o Kant, figuriamoci il sottoscritto LPP.

La critica in architettura come facoltà innata nell’uomo

Questo atteggiamento non è certamente nuovo. Credo che esista da sempre, anche dai tempi in cui si diceva ipse dixit per far capire che si trattava di una tesi sostenuta da un grande filosofo come Aristotele e quindi sostanzialmente indiscutibile. Aristotele lo si chiamava, infatti, in causa per sostenere le tesi di chi lo invocava, e non certo le sue. Ma si è diffuso, consolidato e sviluppato con l’Illuminismo (ricordiamo in proposito le tesi di Kant sull’Illuminismo stesso, inteso come l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità attraverso il rifiuto di dogmi, falsi miti e ogni genere di idea non sostenuta da valide motivazioni) e, poi, attraverso un processo continuo di emancipazione, oggi sancito dai nuovi mezzi di comunicazione che danno a tutti il diritto e la responsabilità di intervenire e dire la propria. Tutto questo, con gran disperazione di Umberto Eco, il quale, in un articolo famoso e che tutti coloro che si sentono specialisti citano, sostenne che “prima i cretini erano relegati al bar e oggi hanno potenti piattaforme a disposizione”.

I critici in architettura

Personalmente, provo un gran fastidio per le tesi di Eco. Anche perché, quando vado in viaggio, cerco un albergo o scarico una app, leggo con gran giovamento le recensioni di coloro che non sono certi esperti della materia o critici di professione. Ovviamente, quando si tratta di un film o di un libro tengo in dovuto conto (ma ad essere sincero: non sempre) anche il parere degli esperti. In architettura funziona all’incontrario. Se un critico che non apprezzo parla bene di un edificio, lo guardo con sospetto e parto prevenuto. Se lo critica, allora penso che sia un capolavoro.
Quando sono io a scrivere commenti, noto che anche i miei lettori si comportano in maniera simile. Vedo che in linea di massima li leggono e li tengono in qualche considerazione. Ma, poi, hanno idee precise e vogliono dire la loro, a volte in maniera aggressiva e sarcastica. Osservazioni contro le quali sarebbe da parte mia sbagliato controbattere avanzando un principio di autorità. Lo ripeto anche a costo di essere prolisso: è la nostra cultura occidentale che ci insegna che ad una critica si può rispondere solo con un contro ragionamento. E se proprio questo principio di autorità volessi rivendicare, lo dovrei fare non rispondendo. Se accetto il confronto, devo battermi ad armi pari, non importa se l’interlocutore è Umberto Eco o il suo personaggio da bar. Dunque nella critica uno vale quasi sempre uno. E così sarà sempre di più in una società che ci coinvolge continuamente per farci esprimere la nostra opinione, suggerendoci di non delegarla a coloro nel passato che erano gli intermediari tra l’opera e il pubblico: i critici di professione, appunto.

Il dominio della critica in architettura

La crisi degli intermediari e cioè la fine della centralità della critica credo abbia rappresentato in architettura un importante avanzamento. Pensate a come era triste il mondo prima, quando le poche riviste di architettura decidevano chi era bravo e chi non lo era. Con giudizi sbagliati, di cui ancora paghiamo le conseguenze. Oggi ci accorgiamo, infatti, che intere pagine di storia dell’architettura non sono state scritte. Che è stato imperdonabile il silenzio su Monaco e Luccichenti, Lina Bo Bardi, Luigi Pellegrin, Leonardo Ricci, Aldo Loris Rossi, Vittorio Giorgini, Sergio Musmeci, Leonardo Savioli, Vittoriano Viganò, per citare solo pochissimi tra i tanti dimenticati. Mentre altri architetti di scarso valore, sono stati esaltati. E, difatti, il ruolo di direttore di rivista era particolarmente ambito. Fonte di sicuro potere personale, se non altro perché trasformava nel custode delle chiavi del cancello da cui, chi cercava notorietà, doveva passare. Dovremmo, prima o poi, scrivere una storia delle politiche culturali o semplicemente di lobby gestite dai direttori di Casabella, Domus e di altre riviste: Marcello Piacentini, Ernesto Nathan Rogers, Gio Ponti, Vittorio Gregotti, Francesco Dal Co, Stefano Boeri, Marco Casamonti.

Cini Boeri e Gio Ponti, 1954. Photo via Wikipedia
Cini Boeri e Gio Ponti, 1954. Photo via Wikipedia

Il critico di architettura oggi e le sue trappole

Oggi, tutto questo non è più possibile. I mezzi attraverso cui parlare di architettura, promuovendo le proprie opere, sono numerosi e il problema è, semmai, il contrario: non tanto come essere pubblicati ma, piuttosto, come emergere rispetto a tanta abbondanza di proposte.
Il critico, in questo nuovo quadro, deve imparare a cambiare atteggiamento: da erogatore di giudizi più o meno inappellabili, trasformarsi in un nodo della rete. Un nodo che può amplificare o meno l’energia del sistema, attivando iniziative, promuovendo dibattiti e polemiche, segnalando opere e proposte. Mostrando ciò che secondo lui ha interesse e criticando ciò che lo ha meno. Interagendo e non dispensando giudizi dall’alto.
Occorre però stare attenti a non cadere in una trappola. Questa consiste nel desiderio del critico di trasformarsi in un concorrente o in un partner dell’architetto. Da (quasi) sempre, infatti, il critico soffre di un complesso di inferiorità nei suoi confronti e, in un qualche modo, creatore lo vuole diventare pure lui, illudendosi di poterlo fare con maggiore abilità e cultura. Un po’ come ha teorizzato nel campo artistico Achille Bonito Oliva: creare strumentalizzando i creatori.
Si tratta di una trappola sempre in agguato e, oltretutto, concretizzata in vari modi. Uno di questi è la Critica operativa, che ha avuto in Bruno Zevi il suo principale esponente. Il critico operativo  si arroga il ruolo di indirizzare l’architetto e, in generale, l’architettura lungo direzioni da lui giudicate attuali e importanti. Con operazioni culturali, appunto operative, che possono, anzi devono, essere estese alle opere del passato, come è successo con mostre famose dedicate a  Michelangelo, Borromini o a Brunelleschi anticlassico. Mostre in cui si individuavano nel passato anche remoto aspetti progettuali importanti e di cui fare tesoro nel disegno di opere contemporanee. Senza considerare che tale atteggiamento era stato, già dai primi del Novecento, criticato da Benedetto Croce, il quale faceva notare come non ci fosse nessun impedimento a che il critico facesse l’artista, bastava che lo sapesse fare. Cosa che non sempre, anzi quasi mai, è successo o succederà perché il critico ha una forma mentis diversa.

Il critico e l’architetto

E difatti, nella concreta realtà dell’architettura, il critico più che per precedere, si fa notare il più delle volte proprio per l’opposto e ciò per arrancare dietro l’arte, e, nel nostro caso, dietro l’architettura. Gli architetti sono sempre più agili e veloci. Il critico afferma che l’arte è qualcosa? Ed ecco che l’artista mostra il contrario. Con quella mossa del cavallo, teorizzata da Viktor Sklovskij, che produce spiazzamento e insieme nuovo materiale di riflessione. E difatti, se ci fate caso, le grandi mostre di architettura, proprio perché ideate da critici o da artisti che abbandonano la creatività per porsi in posizione riflessiva, nascono quando le poetiche che si vogliono lanciare sono già sul punto di esaurirsi: così è stato per la mostra sull’International Style del 1932 al MoMA, del Postmodernism del 1980 alla Biennale di Venezia, del Decostruttivismo del 1988 sempre al MoMA.

Il mestiere del critico nel mondo della comunicazione a-critica

Il critico, infine, si distingue da chi non lo è perché intende la critica come un lavoro. Il che non necessariamente significa che sia la sua unica attività. Ma che egli impegna in questa una considerevole parte del proprio tempo. Da qui il problema della remunerazione. Un tempo proveniva da un insegnamento – meglio se universitario – o dalla collaborazione retribuita a giornali e riviste, dai proventi delle vendite dei libri. Oggi tutte e tre le fonti di risorse economiche sono in esaurimento. In particolare le ultime due, a seguito della crisi della carta stampata.
Mentre, da qualche tempo a questa parte, si profila all’orizzonte, annunciandosi come ben remunerativa, una quarta fonte: quella della comunicazione. Sono sempre di più gli studi di architettura che investono nel settore pagando agenzie di PR e professionisti freelance. Il motivo è semplice: se è difficile farsi pagare per dire quello che si pensa, è più facile ricevere ricompense per dire quello che gli interlocutori vogliono sentirsi dire. Che sono bravi, che sono all’avanguardia, che stanno migliorando il mondo. Anche se questo non è per nulla vero o lo è solo parzialmente.
Si sta così espandendo e consolidando un mercato apparentemente critico ma che svolge di fatto una funzione a-critica. Mostre di architettura, pubblicazioni, eventi sono oramai pianificati a tavolino, come se fossero campagne pubblicitarie di prodotti da immettere sul mercato. E con retoriche molto simili: tutto è ecologico, sano, naturale e fatto in casa. Il progresso si incontra sempre con la tradizione. La sapienza industriale si coniuga con la qualità artigianale. Efficienza, resilienza, sartorialità.
Da qui l’abuso di concept che, proprio per essere facili, se non elementari e banali, rendono accessibile al vasto pubblico contenuti disciplinari altrimenti ostici. 
Vi ricordate cosa abbiamo detto del linguaggio dell’architettura? Che, come la musica, lavora sui sensi ed è accessibile a tutti. Mentre, dall’altro, fa ricorso alla storia della disciplina e ai suoi significati stratificati nel tempo con un linguaggio per iniziati che è accessibile quasi esclusivamente agli addetti ai lavori. I concept scelgono la prima strada: evitano il messaggio più profondo e vanno direttamente a quello più immediato, magari impacchettandolo in una utopia facile da afferrare: un bosco verticale, per esempio.

Il doppio significato dell’architettura e il “concept”

Si dirà che nulla priva l’architettura di avere un doppio sistema di significati: uno più banale, alla portata di tutti e uno più profondo, destinato ai conoscitori della materia. Era questo, per esempio, l’intenzione di molta architettura post modern, che adoperava il double coding. Il problema è, però, che l’aspetto comunicativo sta diventando sempre più prevalente anche al livello progettuale. Pensiamo per esempio allo Shard, la scheggia di vetro disegnata da Renzo Piano. Per far accettare all’opinione pubblica un grattacielo così imponente – è il più alto d’Europa – bisognava che la comunicazione puntasse sulla delicatezza e sulla trasparenza. Da qui l’idea delle schegge vetrate che hanno dato il nome all’edificio e che, soprattutto, ne hanno determinato la forma. Per quanto, a questo punto, si possano cercare altri significati disciplinari, che sicuramente ci saranno, è chiaro che il concept è diventato architettura. D’altra parte cosa si nasconde dietro il Bosco Verticale? E dietro la Nuvola? Se vi ricordate, ne abbiamo parlato a proposito del libro di Susan Sontag, Contro l’interpretazione. È la trasparenza – afferma il critico americano – che “è oggi il più alto, il più liberatorio valore nell’arte e nella critica.” Forse dovremmo abituarci a considerare questa leggerezza, questa programmatica assenza di significati,  come il valore dell’architettura contemporanea. Ne parleremo nel prossimo capitolo, confrontando questa prospettiva con quella diversa, se non opposta, della autorialità.

Il bosco verticale di Spazio Roseto
Il bosco verticale di Spazio Roseto

La critica di architettura migra su internet

Torniamo alla critica. Come abbiamo accennato, il dato più significativo è che sta emigrando su internet e sui social media. Cioè su piattaforme strutturalmente diverse da quelle della carta stampata. Intanto, perché esse sono molto più volatili. Per scrivere un libro ci voleva almeno un anno, per scrivere un post ci vogliono pochi minuti. Un libro durava per sempre, il post si perde dopo 24 ore. Cambia il pubblico. Nella carta stampata è l’Umanità: una finzione letteraria che non esiste, non interagisce e non commenta (se non attraverso qualcuno che si auto-delega di rappresentarla scrivendo qualche recensione o lettera al direttore). Mentre nei social il pubblico è reale: sono persone concrete, che conosciamo per nome e cognome, che seguono giorno dopo giorno e rispondono, intervenendo anche polemicamente.
Si stanno ricreando alcune condizioni della precedente civiltà orale dove c’era una figura carismatica che parlava e un gruppo di persone che con lei interagivano. In questi dialoghi si coltivava un approccio che oggi definiremmo più informale e più efficace per gestire la plasticità di un pensiero dinamico che vive di cambiamenti, ripensamenti, contraddizioni e perenne dibattito. Una fluidità che la carta stampata ha difficoltà a gestire per il fatto che manca la contemporaneità della domanda e della risposta, dell’affermazione e della negazione (le riviste di architettura in particolare sono, di regola, mensili o bimestrali se non semestrali).

Tutti possono fare i critici su internet

Torniamo a uno vale quasi uno. I nuovi media vivono di questo principio, anche se, poi, chi tira le fila (cioè chi gestisce la pagina del social) ha pur sempre una posizione di vantaggio. Che, però, può sfruttare sino a un certo punto, perché, se non accetta la logica del dibattito, cade l’attenzione del pubblico che è più interessato al confronto, che a un solo e perentorio giudizio.
Se adesso guardiamo i dati di vendita dei libri di architettura, ci accorgiamo che di tratta di cifre con due zeri, al massimo tre. Tirare 2000 copie è un successo. Sui social gli zeri sono quattro e anche cinque. Diecimila follower è una audience minima facilmente raggiungibile.  È quindi questione di tempo e tutta la critica emigrerà, per non rimanere emarginata nei vecchi media, sempre meno frequentati. Oppure morirà. Ho molta difficoltà a vedere tanti personaggi che lanciano giudizi seriosi e inappellabili a confrontarsi giorno per giorno con commenti, spesso da curva sud, che si incontrano in rete. Avverrà tutto questo in breve tempo? Probabilmente. Nel frattempo, mezzi e risorse crescenti saranno destinati alla comunicazione, cioè alla principale antagonista della critica. Con la conseguenza che la promozione attraverso concept diventerà tanto potente da determinare a tavolino la forma stessa dei prodotti. Nel design questo nuovo approccio lo si pratica da tempo.  Mi raccontava un designer: “prima proponevo un’idea e me la realizzavano se la ritenevano innovativa, bella o utile. Oggi la domanda che mi fanno è: come la proponiamo al pubblico, come la vendiamo?”. In architettura, come abbiamo visto, all’architetto è lasciata ancora una certa libertà, anche se, a dire il vero, è sempre più limitata, forse per il fatto che l’industria delle costruzioni non è ancora così orientata verso il marketing quanto l’industria del mobile.
Torniamo alla nostra iniziale domanda. Dobbiamo dare retta ai critici? Meglio di no. Erano bugiardi prima, lo saranno ancora di più negli anni a venire, soprattutto se per vivere diventeranno i PR degli studi di architettura.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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