Gli artisti e l’editoria. Intervista a Luca Lo Pinto

Alla Kunsthalle di Vienna prende forma un viaggio intorno al mondo dell’art publishing. Ne abbiamo parlato con l’ideatore e curatore, Luca Lo Pinto.

Medium ad ampio spettro, il publishing artistico si rivela un’attività con ampia libertà d’espressione e d’intenti, mostrandosi uno strumento editoriale in cui l’artista mette in gioco il proprio immaginario poetico in alternativa al consueto lavoro per gallerie o musei. Dato che il medium conferma sempre di essere il messaggio, il materiale della comunicazione assume senso e valore a cominciare dal format creato, il quale può essere un libro a tiratura limitata oppure un documento diffuso con i comuni mezzi di stampa, o tramite altri canali, facilitati dalle tecnologie oggi disponibili per la produzione e la distribuzione.
Decisiva è la disposizione mediatica di ogni artista che non intenda sottrarsi al dialogo con il pubblico, fosse anche un pubblico di una sola persona, giacché lo “strumento” può concretizzarsi bizzarramente nella produzione di un’unica copia. Naturale che si tratti di un’editoria da collezione, solitamente non rintracciabile nelle normali librerie.
La mostra Publishing as an Artistic  Toolbox: 1989-2017 è concepita per capitoli, alcuni dei quali costruiti seguendo una costante, ossia una regola stabilita dal curatore, cosa che accade ad esempio per la sezione Artists’ Library, in cui trentacinque artisti (fra cui Maurizio Cattelan, Liam Gillick, Olaf Nicolai, Heimo Zobernig) sono stati invitati a presentare ciascuno una propria pubblicazione insieme a tre libri di altri artisti – editi tra il 1989 e il 2017 – che abbiano influenzato la loro attitudine verso il publishing. In realtà ogni visitatore, nell’attraversare lo spazio che porta al salone espositivo, è già entrato in contatto diretto con la materia, essendo stato posto al cospetto di un autentico bookshop, fitto di esemplari di un’editoria d’arte accuratamente disordinata e varia, selezionata anche secondo un’ampia gamma grafica, e con costi alquanto contenuti. Questo spazio è al tempo stesso un capitolo della mostra, posto sotto il titolo The Bookshop as Medium, esito della collaborazione tra il collezionista Giorgio Magnani e Motto Books di Berlino.
Seguono molte altre sezioni, come Expanded Publishing o Design as Medium, sulla quale il curatore si sofferma dicendo che gli interessava molto guardare anche al ruolo del graphic designer, importantissimo nel caratterizzare un prodotto editoriale. Pertanto, con Luca Lo Pinto, percorrendo insieme la “sua” mostra, ci siamo intrattenuti in una lunga conversazione.

Publishing as an Artistic Toolbox 1989 2017. Exhibition view at Kunsthalle Wien, 2017. Photo Franco Veremondi

Publishing as an Artistic Toolbox 1989 2017. Exhibition view at Kunsthalle Wien, 2017. Photo Franco Veremondi

L’INTERVISTA

La mostra Publishing as an Artistic Toolbox, di cui sei ideatore e curatore, tematizza – come lascia intendere il titolo – le molteplici possibilità d’impiego dell’art publishing, ponendo sotto osservazione le numerose declinazioni di questo fenomeno che si mostra in forte espansione. Una mostra insolita, di cui ti chiedo di tratteggiare un profilo generale per definire meglio la sua specificità.
Il titolo completo della mostra riporta una datazione: 1989-2017; lo sottolineo perché, quando ho cominciato a lavorarci, c’era il desiderio, condiviso anche dalla Kunsthalle, di fare una esposizione analitica del fenomeno publishing in riferimento al periodo tra queste due date, ben diversa da una fiera o un festival, quindi andava affrontata come un evento di lunga durata, e in riferimento al periodo tra queste due date. Se negli ultimi anni c’è stata una esplosione di manifestazioni sull’argomento, si è trattato però soprattutto di fiere su libri e fanzine.

A quali manifestazioni ti riferisci in particolare, e in cosa si distingue questa tua mostra?
Ti cito l’esempio newyorkese di The NY Art Book Fair, una fiera, appunto, che va avanti ormai da parecchi anni. Sempre alto il numero dei visitatori, quest’anno 35mila in soli tre giorni di apertura, confermandosi quasi un evento di tendenza. Se agli inizi era orientata più sull’editoria indipendente, oggi quella fiera si è molto trasformata e anche importanti gallerie come Gagosian e Twirner vi partecipano con i loro stand. Quello che voglio dire è che negli ultimi quindici anni c’è stato, sì, un incremento di proposte e una enorme diffusione del publishing, a cui anche alcune istituzioni e musei hanno dedicato dei progetti di diverso tipo; tuttavia, molto raramente sono stati organizzati dei veri e propri eventi espositivi destinati a occupare un lungo periodo, come invece è questo della Kunsthalle di Vienna. Pure altre manifestazioni come quelle di Berlino, di Londra eccetera, e ultimamente anche di Torino con il progetto FLAT, sono tutte di breve durata, per nulla concepite come mostre che tematizzino analiticamente il fenomeno.

La ragione di questa carenza?
Dal momento che i musei sono incentrati sull’arte visiva, una mostra di libri e di documenti viene solitamente considerata elitaria, ostica per un pubblico generalista. Io qui non volevo un qualcosa che si limitasse al libro d’artista, che infatti è solo uno degli aspetti di questa mostra. La parola inglese publishing è da intendere nel senso di ombrello che raccoglie tante declinazioni, come notavi anche tu poc’anzi.

Publishing as an Artistic Toolbox 1989 2017. Exhibition view at Kunsthalle Wien, 2017. Photo Franco Veremondi

Publishing as an Artistic Toolbox 1989 2017. Exhibition view at Kunsthalle Wien, 2017. Photo Franco Veremondi

Quindi, come dobbiamo intendere tale fenomeno?
È uno strumento, un veicolo di oggetti editoriali eterogenei che gli artisti hanno impiegato in maniera molto differente. Oltre al libro, il publishing può comprendere una rivista fatta da artisti, oppure tanti altri tipi d’intervento in riviste, periodici, quotidiani o altri materiali autoprodotti dagli artisti stessi; operazioni già molto usate dalle avanguardie storiche, pensa all’uso che ne hanno fatto i futuristi e i surrealisti.

Come si spiega la proliferazione di questa editoria d’arte oggi, fino al punto di farsi molto pervasiva?
Il motivo per cui negli ultimi anni c’è stato il boom di questo fenomeno, soprattutto tra le generazioni più giovani, è legato in primo luogo allo sviluppo delle tecnologie e poi alle possibilità di usare delle diverse forme alternative sul lato importantissimo della distribuzione. Per esempio, puoi creare un tuo sito e vendere direttamente. In generale anche i costi di produzione si sono abbassati, tutto è diventato più accessibile. Il che – altro aspetto interessante da indagare – comporta delle differenze rispetto agli Anni Sessanta e Settanta, che è considerato il periodo più ricco anche a livello di sperimentazione dei linguaggi, in cui il libro era l’estensione della loro pratica concettuale. Si configurava come un modo diverso di produrre arte in alternativa a quello delle gallerie e dei musei, usando lo spazio “pagina” come se fosse uno spazio fisico. Per la Kunsthalle di Vienna ho pensato che fosse più urgente fare una mostra sul publishing guardando al nostro recente passato, dal 1989 a oggi. L’’89 è una data simbolica, legata in qualche modo alla nascita del web.

Vista la peculiarità e l’efficacia dell’art publishing nella multiformità delle sue espressioni, potrebbe essere inserita all’interno delle arti visive al pari dei generi tradizionali?
L’intento di questa mostra è di osservare le diverse possibilità e il modo in cui gli artisti ne fanno uso. Allora, se la domanda è: lo definiresti un genere? No, tendo più a vederlo come uno strumento che si presta a essere usato in modi molto differenti e, per taluni aspetti grafici o estetici, come un medium per poter produrre arte. Qui si è voluto enfatizzare questo dato strumentale del Publishing. Certo, se prendi i libri di Ed Ruscha, sono delle opere d’arte: delle opere sotto forma di libro, cosa che vale anche per John Baldessari e altri. Insomma, dei vari oggetti che vedi nella mostra, per esempio nella sezione The Message as Medium, ci sono riviste e quotidiani; ci sono libri autoprodotti dagli artisti, materiali con tirature che vanno da poche copie fino a cinquemila, che è una tiratura alta, non da editoria di nicchia. Se nell’opinione comune, soprattutto in un pubblico generalista, il libro d’arte è ancora il catalogo, l’editoria artistica è altra cosa, e qui si è voluto mostrare come tale campo sia un veicolo per la produzione dell’arte e per condividere idee. In effetti, le gallerie e i musei non hanno interesse a finanziare un libro d’artista, hanno più interesse a produrre un catalogo per documentare le opere che espongono.

Il logo della mostra Publishing as an Artistic Toolbox 1989-2017. Photo iStock.com-Thomas-Soellner

Il logo della mostra Publishing as an Artistic Toolbox 1989-2017. Photo iStock.com-Thomas-Soellner

Perché, secondo l’enunciato del titolo, hai voluto assimilare il publishing a una “Artistic Toolbox”, facendone anche il logo della mostra?
Come immagine, la cassetta degli attrezzi non è il massimo, ma un libro sarebbe stato troppo didascalico. Dentro a questa grande scatola che è il publishing rientrano tante cose: contenuti differenti, disomogenei e con caratteristiche proprie. La rivista, per esempio, è un oggetto tipico della comunicazione, è un medium informativo, e qui, insieme a tutto il resto, c’è anche uno spazio dedicato alla pubblicità che spesso per gli artisti diventa parte integrante del lavoro, cosa che ovviamente in un libro non c’è. Osservandone la funzione e i modi di utilizzo, viene in evidenza come questa “cassetta degli attrezzi” sta in un mercato diverso da quello della normale editoria, differenziandosi anche nel sistema distributivo.

Al primo impatto, la tua mostra non è di facile comprensione, anzi richiede molta tenacia nel lasciarsi afferrare, e poi molta concentrazione nel voler navigare tra i materiali esposti in cui prevalgono di gran lunga le parole rispetto alle illustrazioni. Per non parlare poi dei tanti nomi citati, artisti e autori vari, molti dei quali pressoché sconosciuti. Nel ponderare la questione della cosiddetta fruibilità, in che modo ti sei regolato?
Nel fare la mostra, mi sono messo ovviamente nei panni del pubblico, avendo in mente come spettatore ideale un nerd, grande appassionato di libri di editoria d’arte, ma anche una persona che non sa niente di questo e viene per vedere una mostra di arte visiva. In effetti, ti trovi davanti a una mostra diversa perché non ci sono opere d’arte ma materiali fruibili in modo inusuale. In una normale mostra puoi passeggiare guardando un quadro o una fotografia, e, soffermandoti anche pochi secondi, quell’immagine ti dirà qualcosa. Proprio per questa diversità, sul piano della presentazione ho scelto di lavorare con il collettivo Rio Grande, e si è deciso di agire sul contesto ambientale tramite uno scenario non rigoroso; non una mostra con tavoli e vetrine, ma presentando un display meno austero, che potesse essere seducente, giocoso e indubbiamente coraggioso, consapevoli del rischio che uno spettatore troppo serio fugga scandalizzato.

Mi colpisce anche un altro aspetto: la sezione Autoretrospective è dedicata all’artista francese Philippe Thomas, un artista il cui lavoro è davvero molto interessante, un teorico di codici artistici nella comunicazione mass-mediatica, come di giochi di scambio tra realtà e finzione. Ti sei forse ispirato a qualcuno dei suoi principi nel curare l’esposizione?
No, non nel criterio metodologico dell’allestimento.

Publishing as an Artistic Toolbox 1989 2017. Exhibition view at Kunsthalle Wien, 2017. Photo Franco Veremondi

Publishing as an Artistic Toolbox 1989 2017. Exhibition view at Kunsthalle Wien, 2017. Photo Franco Veremondi

E allora perché la scelta di Thomas?
L’ho inserito perché mi piaceva dedicare una sezione a una singola personalità, e ritengo Philippe Thomas uno degli artisti più importanti degli ultimi decenni, morto nel 1995 a soli quarantaquattro anni. Lui non ha lavorato su libri d’artista, ma ha anticipato molte tematiche attraverso le sue iniziative, come l’agenzia Readymades belong to everyone, per mezzo della quale, stipulando un vero contratto con l’acquirente di una sua opera, costui ne diveniva l’autore; così oggi siamo al punto che è quasi impossibile rintracciare i suoi lavori se non si conoscono quegli acquirenti. Oltre a questa forma di de-personalizzazione dell’artista, lui ha lavorato tra l’altro sulla appropriazione di strategie e linguaggi pubblicitari e di marketing.

Nella sezione The Message as Medium sono di scena giornali e riviste in cui tanti artisti hanno fatto in vario modo degli interventi letterari o figurativi, confermando che il campo da te messo in gioco è molto ampio. Dato che siamo tutti acquirenti di giornali, riviste e altro materiale tipografico, siamo tutti collezionisti?
Il paradosso è che nei contesti mass-mediatici a cui ti riferisci, gli interventi degli artisti sono opere uniche concepite per tirature enormi, che vanno in mano a migliaia di persone e che però poi vengono conservate. Prendi l’intervento di Boetti su un numero del Manifesto dell’’81: i lettori-acquirenti di quel numero – poniamo fossero stati diecimila – erano potenzialmente diecimila collezionisti, invece oggi quella copia è difficilissima da trovare.

Mi pongo la questione se anche i graphic novel, o i fumetti, utilizzati nei media in svariati modi e contesti, e che qui mi sembra non siano tematizzati, potrebbero essere inseriti nell’ambito dell’art publishing. Cosa ne pensi?
Riguardo ai graphic novel e ai fumetti, qui non sono considerati perché – voglio precisarlo ancora – la mostra si occupa di come gli artisti hanno impiegato il publishing; ossia far capire a un pubblico non specializzato le differenze e le possibilità di tale ambito, senza dire è questo, è quello. Se un artista fa un libro sotto forma di graphic novel, è chiaro che questo potrebbe stare nella mostra. Seguendo questo ragionamento, se mi vuoi chiedere cos’è il genere dell’editoria d’arte, non so neanch’io definirlo con precisione.

Torniamo al display espositivo che tu chiami “giocoso”, quanto “coraggioso”. Hanno un significato particolare le quattro grandi strutture a forma di tetto, con spioventi molto inclinati, sui quali poggiano tutti i materiali esibiti, sorretti da apposite mensoline?
Il tetto, qui, non ha un significato simbolico. Come ti dicevo, ho fatto venire il collettivo Rio Grande perché non volevo né un architetto, né un classico exhibition designer, ma qualcuno che prendesse il rischio di fare qualcosa di diverso da quello che ci si può attendere da una mostra di libri e di documenti cartacei. Desideravo un approccio che non offrisse una anonima sala di lettura, ma qualcosa di concreto, che permettesse al pubblico di seguire un percorso ben scandito, in cui non ci si sentisse smarriti.

Franco Veremondi

Vienna // fino al 28 gennaio 2018
Publishing as an Artistic Toolbox: 1989-2017
KUNSTHALLE WIEN
Museumsplatz 1 (MuseumsQuartier)
www.kunsthallewien.at

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Franco Veremondi

Franco Veremondi

Nato a Perugia, residente a Roma; da alcuni anni vive prevalentemente a Vienna. Ha studiato giurisprudenza, quindi filosofia con indirizzo estetico e ha poi conseguito un perfezionamento in Teoretica (filosofia del tempo) presso l’Università Roma Tre. È giornalista pubblicista dal…

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