Deserti ed ecologia. Reportage dalla Biennale di Yinchuan

Una panoramica sulla seconda edizione della Biennale di Yinchuan, diretta da Marco Scotini.

Language Atlas of China è la mappa disegnata da Mariam Ghani per cartografare le minoranze linguistiche in Cina, in particolare modo quelle presenti nella regione del nord-ovest. Mappa realizzata su una grande lavagna per far emergere la complessa e porosa rete di stratificazioni culturali e linguistiche presenti in quell’area del Paese, dove nell’antichità passava la Via della Seta. L’installazione è parte di Starting from the Desert. Ecologies on the Edge, la seconda edizione della Biennale di Yinchuan. Il curatore Marco Scotini ha seguito le tracce della mitica rete di transiti selezionando novanta artisti attivi in Italia, Serbia, Turchia, Dagestan, Uzbekistan, Kazakhistan, Kirghizistan, Mongolia, Afghanistan. Il MOCA di Yinchuan, il più grande museo di arte contemporanea del nord-ovest della Cina, si trova in un’area che non ha la stessa vitalità culturale del sud-est, ma che presto assumerà una diversa importanza grazie ai tanti investimenti in atto, come la costruzione dell’ambiziosa e strategica One Belt One Road, la “Nuova Via della Seta” che dovrebbe unire l’Asia all’Europa entro il 2049, passando per oltre sessanta Paesi.
L’indagine della storia e del contesto geopolitico si intrecciano a temi riguardanti le politiche ambientali, il nomadismo e le questioni di genere. Diverse performance sono state realizzate nei giorni dell’inaugurazione. Nikhil Chopra ha disegnato un grande orizzonte marino simile a una successione di onde, che ricordavano le dune del vicino deserto del Gobi, a solo un’ora di macchina dal museo. L’indonesiana Arahmaiani Feisal, tra le prime a realizzare progetti di arte pubblica in Indonesia, ha composto un mandala assemblando germogli di piante, accompagnata dal soundscape del musicista Wukir Suryadi, che ha costruito strumenti musicali servendosi degli artefatti agricoli dei contadini di Yinchuan. L’artista mongolo Enkhbold Togmidshiirev ha installato nel parco del MOCA una yurta e l’ha “animata” con materiali naturali, seguendo la tradizione dei riti sciamanici mongoli.

Pedro Neves Marques, YWY. The Android. Courtesy the artist and Second Yinchuan Biennale

Pedro Neves Marques, YWY. The Android. Courtesy the artist and Second Yinchuan Biennale

MODERNITÀ E TRADIZIONE

All’interno del museo e nell’art village adiacente, il percorso espositivo propone ibridazioni, scambi e contaminazioni culturali tra diversi contesti geopolitici e ambientali. I dipinti di Nomin Bold, specializzata nella tradizione pittorica mongola dello “Zurag” e laureatasi nell’unica università statale di Belle Arti di Ulaanbaatar, mostrano all’interno di forme iconografiche tradizionali elementi di forte discontinuità, un modo per visualizzare i cambiamenti determinati dalla rapida urbanizzazione del Paese e il disorientamento delle popolazioni nomadi costrette a inventarsi un diverso stile di vita, tra modernità e tradizione. Del resto, come scrive lo storico inglese Eric Hobsbawm, la pittura “Zurag” è stata un’“invenzione della tradizione”, un modo per preservare l’identità culturale dei mongoli nonostante la pressione dei sovietici di adottare lo stile del Realismo socialista. Can Altay preserva la memoria di un esperimento di pedagogia sviluppato in Turchia fra gli Anni Trenta e Quaranta del Novecento per sostenere gli ideali della Repubblica tra la popolazione rurale con l’installazione The Institute: 3 Thresholds, mentre la slovena Marjetica Potrc porta all’interno del museo una casa autoctona del distretto di Huxian (regione in cui ha sede il MOCA), assemblando strutture già esistenti, Kimsooja ha invece assemblato coprimaterassi e tessuti tradizionali utilizzati dai nomadi della vicina regione del Xi-an. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, con la video installazione Images d’Orient, tourisme vandal, mostrano lo sguardo cinematografico colonialista in India, Navjot Altaf indaga lo sfruttamento minerario nel distretto di Chhattisgart, nell’India centrale, Sheba Chhachhi ha fotografato le femministe indiane attive nei movimenti ecologisti e Saodat Ismailova presenta i nuovi assestamenti geopolitici dell’Uzbekistan contemporaneo.

Demetrio Stratos. Courtesy Second Yinchuan Biennale

Demetrio Stratos. Courtesy Second Yinchuan Biennale

UNO SGUARDO AL FUTURO

La mise en scène corale ed epica della storia cinese raccolta da Mao Tongqiang con gli archivi dei manufatti e dei documenti notarili dialoga con i Landscripts di Xu Bing, tra i più acclamati artisti cinesi viventi, di cui ricordiamo la maestosa fenice presentata alla Biennale di Okwui Enwezor. Gli ideogrammi che compongono i suoi paesaggi sono un modo per rammentarci quanto siamo “costruiti dal linguaggio”, una riflessione amplificata dalle diplofonie e triplofonie di Demetrio Stratos, che con i suoi canti mongoli e tibetani compiva una rigorosa ricerca etno-musicologica, e dal voiceover con cui termina il film-saggio Mined Soil di Filipa Cesar sull’agronomo Amilcar Cabral. “Il terreno è un corpo che ha un proprio linguaggio”, afferma Cabral, “che può non parlare ma che può essere letto”.
Sono molteplici le timeline presentate in Starting from the Desert. Ecologies on the Edge, che si confrontano e dialogano con quelle presenti all’esterno del museo, dove la città vecchia con i suoi templi buddisti, le moschee islamiche e i caotici bazar convivono con la città nuova, sorta di “Matrix” e futura smart city cinese in cui schiere di grattacieli identici e ancora vuoti attendono di essere abitati dai funzionari governativi, e dove le recenti piantagioni di ulivi e altri alberi di media altezza stanno cambiando l’ecosistema ambientale.

Lorenza Pignatti

http://moca-yinchuan.com/

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati