Un racconto di famiglia. I Ceccobelli a Todi

Sala delle Pietre, Palazzo del Popolo e Nido dell’Aquila, Todi ‒ fino al 30 settembre. Bruno Ceccobelli e i figli gemelli Auro e Celso dialogano con la città di Todi attraverso due mostre autonome eppure legate da un fil rouge familiare.

La prolifica edizione 2018 del Todi Festival ha realizzato in un sol colpo due mostre installative ‒ l’una ideale prosecuzione dell’altra ‒ di raro pregio, per qualità, metodo e ricognizione storica (contemporanea).
Già dal manifesto ufficiale del festival ‒ una veste antica e piedi lignei dipinti incastrati su roboanti ruote-casse audio ‒ si intuisce la sinergia fra ‘Todi per l’Arte’ e Bruno Ceccobelli insieme ai figli Auro e Celso, che ne sono autori. Todi ha scelto Ceccobelli (Montecastello di Vibio, 1952) e i suoi figli (Roma, 1986), con un’antologica del ‘Padre’ ‒ allestita nella Sala delle Pietre di Palazzo del Popolo ‒ e dei ‘Gemelli’ ‒ quattro sculture sonore in sincrono con il paesaggio ‒ presso il Nido dell’Aquila.
Se Todi, dove peraltro vive, ha scelto Ceccobelli, lui ricambia ‒ e non poco ‒, dando a questa immensa installazione site specific un titolo dalle molteplici interpretazioni: T’ODI. Ceccobelli, infatti, non ha mai smesso, dalla fine degli Anni Settanta, di udirsi e ascoltarsi: ha sempre vissuto l’arte, la sua complessa (per profondità), mistica (per natura) e stratificata (per tecnica) arte ‒ in controtendenza rispetto ai tanti coetanei che studiavano gli altri, il fuori e i sistemi ‒, ascoltando solo la sua interiorità rapportata al segno che intendeva offrire al mondo. Un continuo riflettere e analizzare la sostanza stessa del fare arte: ciò che scrive nel 1987 per la mostra Letto nel buio, presso lo Studio Marconi, dimostra quanto egli sia mutato, per rimanendo tuttavia lo stesso artista spontaneo e con l’identica struttura mentale analitica/poetica, così come le sue opere, concentrate, oggi come allora, su un centro unico e inalterato: “Ricevi la mia luce nera, fatti ungere di bellezza le membra, scivolerai sulla tua direttiva, sei  dentro il tunnel del senso ritrovato, ricompreso”.

Bruno Ceccobelli, T'odi, 1981 2018. Installation view at Sala delle Pietre, Todi 2018 (c) Auro e Celso Ceccobelli

Bruno Ceccobelli, T’odi, 1981 2018. Installation view at Sala delle Pietre, Todi 2018 (c) Auro e Celso Ceccobelli

UN’ARTE SIMBOLICA

Il migliore critico di se stesso, fin dagli esordi venne inserito nel contesto del più generale ‘ritorno alla pittura’ che contraddistingue la sua generazione. Ceccobelli dichiarò già allora di non voler seguire mode, ma di “credere in un’arte preveggente, non storica né letteraria o sociologica, né stilistica”.
Da subito e finora la sua è stata un’arte simbolica, con un messaggio (mistico e laico al tempo stesso) e possibilmente foriera di pacificazione con il mondo. È quindi comprensibile come nei successivi edonistici e in qualche caso furbetti Anni Novanta la sua purezza non incontrò i favori del mercato che avrebbe invece, molto più di troppi altri strateghi sopravvalutati, ampiamente meritato. La sua prima ‘fabbrica-studio al Pastificio Cerere’ negli Anni Ottanta era un viavai di volenterosi e affettuosi assistenti, che il ’Maestro’, come un illuminato capo cantiere, incitava ripetendo: “Per arrivare alla sorgente bisogna sempre andare controcorrente”. A leggere i simboli, come farebbe lui, si direbbe che ‘tutto torna’: nell’ultimo decennio il lavoro di Bruno Ceccobelli non ha solo ripreso quota, ma è andato oltre, con la soddisfazione di veder crescere il forte istinto artistico, sua estensione, via via autonoma e differente, dei figli gemelli, Auro e Celso; e rapportandosi con spazi autorevoli, aggiungendo elementi formali alla sua sostanza, talmente forte da non aver mai avuto necessità di un minimo dubbio.

T’ODI

T’ODI a Todi è dunque un palcoscenico (reale, ben 240 mq) che sintetizza tutto ciò: la Sala delle Pietre è un enorme spazio dismesso tra sala comunale, stalliera, magazzino abbandonato. Ceccobelli crea una passerella a qualche metro d’altezza dal pavimento utile a camminare, sostare, osservare dall’alto. Sul suolo, a terra, una grande tela di sabbia accoglie un’altra vita di ‘tele’, quindi il Tutto: un’antologica con trenta opere che vanno 1984 al 2018.
Mentre, lentamente, la si percorre, serve il tempo per comparare: piedi, mani, reliquie, cartoni dipinti e ridipinti, croci, tondi e catrame, teste, corpi, impronte, teli che paiono sindoni, lunghi alfabeti incomprensibili. C’è il mondo delle icone e dell’astratto, spirituale e laico: ma ordinato, non cronologico, mescolato il vecchio con il nuovo, per una grande opera senza tempo. Ancora una volta ‒ senza farsene accorgere ‒ Bruno Ceccobelli crea dal nulla un luogo di culto, forse una chiesa, la sua, che diventa di tutti, connettendo le radici della sua terra alla materia dell’arte fino al cuore di ogni anima possibile.

Bruno Ceccobelli. Primo segno, recente sogno. Installation view at Galleria Bibo's Place, Todi 2018 (c) Auro e Celso Ceccobelli

Bruno Ceccobelli. Primo segno, recente sogno. Installation view at Galleria Bibo’s Place, Todi 2018 (c) Auro e Celso Ceccobelli

MOTOREUNIVERSALE

I figli gemelli, Auro e Celso Ceccobelli, allestiscono, a quattro mani, in un luogo strutturalmente diverso, motoreuniversale. Vicini, ma a un po’ di passi della piazza ‒ come a voler esserci sempre, accanto e in simbiosi con un padre prolifico, protettivo e allo stesso tempo severo. Avevano la necessità di porre le loro opere davanti al paesaggio, connessi con la natura. I congegni, complessi ma poveri, le loro macchine ‒ stavolta non celibi ‒ sussurrano dalla ferraglia. Un’arte ‘meccanico modernista’, “Garaggesca, sbullonata, post-apocalittica, non nel senso tecnologico, ma morale”, scrive di loro il padre. Attivi dal 2001, sono maestri di ceramica e utilizzano le fibre resinate: carbonio, titanio, vetro per ricreare macchine, compresi skate ‘ermetici’. Hanno antenati nobili, questi ingranaggi del passato-futuro, che i due trasformano in opere sensoriali, di sguardo e ascolto.
Auro e Celso Ceccobelli scelgono, oltre che i resti dei resti, materiali di scarto ‒ in termini formali ‒ delle opere paterne, di variarne il senso spostando l’interazione verso l’esterno e donando allo spettatore un sonoro, un ascolto morbido. A Todi emergono le grandi strutture vegetali innestate con brillanti ruote trasformate in casse acustiche, archeologie contemporanee dalla voce dolce ‒ poiché suoni della natura ‒ alla ricerca di un equilibrio, etico e formale, che Auro e Celso considerano come prima necessità per una ri-partenza dopo il tutto di un presente troppo rumoroso da manipolare.

Claudia Colasanti

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