Possibilità e insubordinazione

Aprirsi a un’arte che superi i limiti delle convenzioni e che rifiuti l’accademismo. Questa è una delle risposte alle dinamiche del presente offerte da Christian Caliandro.

È possibile un’idea di arte completamente aperta alla realtà e al suo divenire, allo spazio della vita e dell’incontro. Un’arte dunque spontaneamente tesa a fuoriuscire dai recinti convenzionali, per incontrare la gente e fondersi empaticamente con il mondo: un’arte consapevolmente e felicemente pop, che esiste nella relazione umana e che ci invita costantemente a uscire dalle nostre rispettive comfort zone.
Una “disposizione d’animo” volta ad avvicinare l’arte alle persone, ad annullare le distanze spaziali, temporali e comunicative. Sperimentare costantemente una “mostra-non mostra”, vale a dire un sistema non tradizionale in cui le opere possano vivere e crescere all’interno di un ecosistema “precario”, effimero, transitorio; che nega di fatto il “mettersi in mostra”, l’esporsi (l’attitudine abituale dell’artista), e che sollecita invece l’atteggiamento contrario – nascondersi, inoltrarsi, fondersi, confondersi.
Opere che per costituzione non sono propriamente tali, e che provano a sfuggire al proprio statuto acquisito. Gli spettatori si trovano dunque non a contemplare una situazione espositiva, protetta e prevedibile, ma piuttosto a immergersi in una condizione, mobile e mutevole, aperta: a fare esperienza di un’alterazione sensibile dei contesti e del loro tessuto umano.
Dare così luogo al non ordinato, al non conosciuto, fuoriuscire dal controllo a cui siamo tanto affezionati, fuoriuscire dal controllo che desideriamo e di cui abbiamo bisogno. Il controllo che dà forma a ogni aspetto della nostra vita.
Dare luogo a un mondo affascinante, misterioso e sorprendente – che si manifesta e si lascia percorrere solo a patto di essere completamente aperti, disponibili e ricettivi.
Un luogo di immaginario e immaginazione, di intensità, di condivisione. Un luogo dove con ogni probabilità non valgono le regole del “fuori”, e in cui regna un sistema di valori alternativo rispetto a quello oggi comunemente in voga.
Una sorta di eterotopia, che disegna e prospetta una forma di vita diversa.

Occorre perciò recuperare, e bene, una tradizione di insubordinazione e antiaccademismo e sperimentazione (che è anche visiva, oltre che letteraria: forse un po’ meno, per motivi storici legati all’ascesa del mercato artistico e del cosiddetto “sistema internazionale” che vanno anch’essi ricostruiti): quella degli irregolari, degli spostati, degli ingenui, dei ribelli, dei resistenti”.

C’è sicuramente dell’ironia in questo tipo di gesto, un segnale che indica qualcosa che-prima-non-esisteva: qualcosa che stranamente esce fuori di sé, fuori della sua forma, si protende verso qualcos’altro ancora che prende corpo e sostanza nella nostra mente.
Questa ironia non è però della specie cinica, facile e disinteressata, che coltiva una forma di compiaciuta distanza dalla realtà; è invece un’ironia sana, totalmente incantata, impegnata nella ridefinizione del senso e dell’uso (multiuso). E crea un territorio attraversato da tutti quelli che giorno per giorno vogliono e vorranno ricostruire un’identità che non è data una volta per tutte, proprio perché si articola attorno al concetto e alla pratica di relazione.
Una corrente di autenticità, sfondamento dei limiti, ricerca del non-stile e della non-forma, approccio zen e jazz – poi punk, e grunge: tanti nomi per un’unica direzione, per una linea generale sotterranea che, ogni tanto, riemerge, viene alla luce… – alla creazione e alla vita, strutture aperte e ricettive. Davanti all’altra corrente (che negli ultimi decenni sembra aver sostituito e soppiantato questa), rigida, irreggimentata, prescrittiva, mortifera: quella dell’individualismo e del professionismo, che dice “no, questo non si può fare”, “no, questo non va bene, è sporco, è maleducato, è sconveniente”, occorre tenere sempre presente che l’inopportunità e la sconvenienza (oltre che, naturalmente, la povertà) sono la salvezza.
L’unica arte che vale non vale nulla.

Sperimentare costantemente una “mostra-non mostra”, vale a dire un sistema non tradizionale in cui le opere possano vivere e crescere all’interno di un ecosistema “precario”, effimero, transitorio; che nega di fatto il “mettersi in mostra”, l’esporsi (l’attitudine abituale dell’artista), e che sollecita invece l’atteggiamento contrario – nascondersi, inoltrarsi, fondersi, confondersi”.

Occorre perciò recuperare, e bene, una tradizione di insubordinazione e antiaccademismo e sperimentazione (che è anche visiva, oltre che letteraria: forse un po’ meno, per motivi storici legati all’ascesa del mercato artistico e del cosiddetto “sistema internazionale” che vanno anch’essi ricostruiti): quella degli irregolari, degli spostati, degli ingenui, dei ribelli, dei resistenti.
L’Arte vera, il Creare, è in genere da due decenni a due secoli in anticipo sui temi, se paragonata al sistema e alla polizia. L’Arte vera non solo non è capita ma viene anche temuta, perché per costruire un futuro migliore deve dichiarare che il presente è brutto, pessimo, e questo non è un compito facile per quelli al potere – minaccia quanto meno i loro posti di lavoro, le loro anime, i loro figli, le loro mogli, le loro automobili nuove e i loro cespugli di rose” (Charles Bukowski, Saggio senza titolo dedicato a Jim Lowell, 1967).

Christian Caliandro

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #40

Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

Scopri di più