Rivive il mito di Alcesti. Nell’ex carcere fiorentino delle Murate

Alcesti. Una messinscena austera, quella di Massimiliano Civica, che ricorda la gestualità orientale del Teatro No, la sua astrazione simbolica. Tre sole magnifiche attrici a impersonare vari ruoli. Un evento unico per venti spettatori a replica in uno spazio inusuale: il semiottagono dell’ex carcere delle Murate a Firenze. Fino al 26 ottobre, volutamente senza tournée.

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Toglie il fiato ascoltare, nel silenzio totale e in chiusura di spettacolo, le parole della canzone Henna di Lucio Dalla: “Io credo nell’amore, l’amore che smuove dal cuore, che ti esce dalle mani e che cammina sotto i tuoi piedi. …L’amore di chi ci ama e non ci vuole lasciare. …Io credo che il dolore, è il dolore che ci cambierà. …Ma io ti cercherò, anche da così lontano ti telefonerò, in una sera buia sporca, fredda. … Io credo che l’amore, è l’amore che ci salverà”. A cantarla, o meglio, a sussurrarla è Monica Demuru.
Queste vertiginose parole condensano e suggellano l’Alcesti del regista Massimiliano Civica, dopo che la sposa del re di Tessaglia, che ha sacrificato la sua vita in cambio di quella del marito, riappare velata, ricondotta in vita da Ercole. Il consorte sembra volerla riconoscere, senza però chiarire se sia lei veramente o una replicante, o l’immagine di una comoda finzione, tanto più che per tre giorni non le sarà concessa la parola. Su questo silenzio la tragedia si chiude, lasciando nello spettatore il dubbio e una sospensione.
Admeto, destinato a morire per un dono di Apollo, ha la possibilità di sottrarsi a Thanatos, purché qualcun altro muoia al suo posto. Solo Alcesti si offre di sostituirsi al fato del marito dato che nessuno, nemmeno gli anziani genitori del re, è disposto al sacrificio. L’eroina euripidea è stata oggetto di una sterminata saggistica che ha dibattuto sulla natura composita del testo, che tratta un argomento tragico con toni e interventi da commedia, secondo la trasgressività propria dell’autore nel degradare divinità e tradizioni, ma anche nel superare i confini tra i generi. È, infatti, una tragedia che fa anche ridere. Non a caso, ha ispirato rifacimenti in chiave satirica e surrealista, ma anche politica. Perché curiosa è la vicenda e la figura di Admeto che rifiuta il suo destino di morte e poi si lascia andare a forme di assurdo egoismo nei riguardi della moglie che ha preso il suo posto, mentre nella scrittura di Euripide la figura di Eracle, che si incarica di aggiustare la situazione riportando in vita Alcesti, sembra uscita da un dramma satiresco. Sono diverse le sequenze che si prestano a una doppia lettura drammatica o parodistica. E moltissime sono state le regie.

Alcesti - Monica Demuru e Daria Deflorian Monica Piseddu, ph D. Burber

Alcesti – Monica Demuru e Daria Deflorian Monica Piseddu, ph D. Burber

Massimiliano Civica, dopo due anni di studio e approfondimento, fa di questa materia incandescente una messinscena densa di pudore, in un equilibrio di toni trattenuti e di dolore sommesso. Quello di Civica è un teatro di estremo rigore stilistico. Scarnificato. Depurato. Che privilegia la pura parola, il pensiero sotteso. I suoi allestimenti, da Shakespeare ai classici greci ai contemporanei, sono versioni personalissime di una visione del teatro “in levare”, di un teatro come rito, di una comunità che “si ritrova per un accadimento, non un evento”. Questa visione include, nel caso dell’allestimento di Alcesti, oltre alla ridotta presenza di venti spettatori a sera, l’unicità del luogo della rappresentazione. Non uno spazio tradizionale, ma un ex carcere: il semiottagono delle Murate a Firenze che si trova all’interno del complesso quattrocentesco, un’architettura che si allunga in altezza con ballatoi e porte delle celle a vista. E questa location, insieme al ravvicinato rapporto tra spettatori e interpreti, fa di questa “visione” un tangibile spazio di interrogazione interiore.
Anche in questo Alcesti – produzione di Fondazione Pontedera Teatro e Atto Due – ritroviamo il suo marchio registico. È un’Alcesti asettica, dove non c’è azione. Se non nelle parole che la suscitano. Queste vengono dette senza enfasi, senza i tumulti dell’anima, delle passioni, dei sentimenti, in maniera quasi atonale, monocorde. Nel rigore formale la messinscena ha il carattere di un oratorio. Un cerimoniale che si consuma tra l’andirivieni delle due attrici in tuniche e pantaloni scuri che si muovono tra una pedana con due lunghi candelabri dorati e due comodini. Le bravissime Daria Deflorian e Monica Piseddu traggono dai cassetti maschere nere, rosse, bianche, cinture, cuffie, nastri e grembiuli ogni volta diversi da indossare, per dare consistenza ai diversi ruoli, maschili e femminili, della tragedia euripidea. Entrano in scena a piccoli passi, simili a marionette, automi pronti a prendere vita come se fosse la parola ad animarle. Un andamento che ricorda la ritualità orientale del Teatro No, come anche quella più recente dei cartoongiapponesi nello scontro marziale tra Apollo e Thanathos. Civica vi immette anche rimandi alla Commedia dell’Arte, evidente nelle maschere e negli inserti dialettali in sardo e in veneto parlati dalle serve, e rimandi arcaici nella voce del Coro di Monica Demuru, che crea un suono, un lamento. Nel breve tempo di poco più di un’ora si consuma il qui ed ora del teatro, la sua unicità dove, per dirla con Pascal, “all’uomo ciò che interessa veramente è l’uomo”.

Giuseppe Distefano

Firenze // fino al 26 ottobre 2014
Euripide – Alcesti
regia di Massimiliano Civica
EX CARCERE DELLE MURATE
Piazza Madonna della Neve 8
055 4206021
[email protected]
www.pontederateatro.it

 

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Giuseppe Distefano

Giuseppe Distefano

Critico di teatro e di danza, fotogiornalista e photoeditor, fotografo di scena, ad ogni spettacolo coltiva la necessità di raccontare ciò a cui assiste, narrare ciò che accade in scena cercando di fornire il più possibile gli elementi per coinvolgere…

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