Trekking a Codera. Il paese della Lombardia dove si arriva solo a piedi

Non chiamateli paesi fantasma: a nord del Lago di Como esiste un territorio accessibile solo a piedi o in elicottero. Qui sopravvive Codera, piccolo nucleo abitato che si regge su agricoltura e turismo. Famoso per tutto l’Ottocento grazie all’estrazione del granito, oggi è un gioiello ben raggiungibile da Milano

Risale all’Anno Mille la “Mulattiera delle Scale”, duemilacinquecento scalini che si inerpicano su ripidi versanti attraversando boschi di castagni, eriche, betulle e frassini. Questa è la strada che ancora oggi percorre Alfonsina, 94 anni, per scendere da Codera a Novate Mezzola. È l’unica via di comunicazione che collega questo piccolo borgo a 825 metri di altutidine e la valle. Rampe, balze e pietre si alternano per due ore insinuandosi nella valle dei picapréda, gli scalpellini che per oltre un secolo hanno estratto granito per portarlo sulle strade di Milano, Piacenza, Bologna e Parma.
Delle comunità che abitavano questi versanti sono rimaste una decina di persone, perlopiù concentrate a Codera, la più anziana è la brillante Alfonsina e il più giovane è un quarantenne che ha deciso di fare il pastore. D’estate, invece, c’è un gran viavai: i novesi salgono in elicottero e aprono le case di famiglia abbandonate dopo la chiusura delle cave, tanti altri s’avventurano a piedi con i loro zaini. C’è chi si ferma qui, ma anche chi prosegue verso la prima tappa del Sentiero Roma, il Rifugio Brasca. Per arrivarci servono altre due ore di cammino costeggiando il torrente Codera, circondati da montagne grigie e aspre dalle quali fuoriescono cascate che si tuffano nei boschi in un continuo scrosciare di acque. Là vivono Mirco ed Elisabetta, rifugisti cultori della pasta fresca e del pane fatto in casa.

Codera, photo Arianna Gandolfi

Codera, photo Arianna Gandolfi

IL VIAGGIO DEL GRANITO DA CODERA ALLA PIANURA PADANA

In queste zone della Valtellina e della Val Chiavenna i locali estraevano il granito per le loro necessità già dall’XI secolo, ma a diffondere questa arte fu un gruppo di scalpellini della Val d’Intelvi molti secoli dopo, quando aprì una cava presso la chiesa di San Fedelino, da cui trasse il nome questo celebre granito.Per molti anni il picapréda fu un mestiere marginale: la comunità viveva di taglio dei boschi, allevamenti, agricoltura. Il boom si ebbe nel Settecento e durò fino agli Anni Sessanta del secolo scorso, complice il trasporto fluviale e poi quello ferroviario. Tutto iniziò quando il Regno di Sardegna annesse Novara, e Milano non poté più utilizzare le cave di Baveno, sopra Stresa. L’estrazione si concentrò sulla sponda opposta, quella orientale: nel 1777 fu costruita una via navigabile che collegava il Naviglio della Martesana con l’Adda e quindi con l’Alto Lario e il Lago di Mezzola, accesso alla Val Codera. In questo modo, grazie al trasporto su barconi, il sanfedelino raggiungeva facilmente tutta la Pianura Padana e arrivava a Milano, dove veniva usato per realizzare marciapiedi.
Il granito conobbe il suo periodo di maggior successo quando nelle città il trasporto passò dai cavalli ai tram: le arterie furono ricoperte di sanfedelino, molto resistente, e fu calcolato che nei cinque anni precedenti il primo conflitto mondiale furono estratte oltre 82mila tonnellate di granito. A Codera e in tutto il territorio limitrofo abitavano almeno 700 scalpellini, che qui restarono fino alla fine degli Anni Sessanta, quando l’attività entrò in crisi.

Val Codera, photo Arianna Gandolfi

Val Codera, photo Arianna Gandolfi

CODERA E I SUOI ABITANTI

Il mio itinerario in Val Codera parte da Novate Mezzola e termina al Rifugio Brasca. Si tratta di un itinerario di 4 ore (sola andata). Il dislivello è di 1100 m. Il trekking è pensato per chi vuole scoprire uno degli ultimi paesi raggiungibili solo a piedi o in elicottero, e l’architettura di antichi nuclei costruiti utilizzando il granito sanfedelino. Come ogni piccolo nucleo, Codera ha il suo punto di riferimento: Roberto. Ho capito subito che era una “specie” di sindaco: è il presidente dell’associazione amici della Val Codera e da anni si batte contro lo spopolamento della zona. L’ho conosciuto all’Osteria Alpina. Mi ha visto pranzare da sola mangiando un piatto a base di verdure dell’orto e si è seduto accanto a me raccontandomi quello che sta facendo per salvare questa cittadina dall’abbandono. Ha aperto un museo etnografico, un alloggio per chi vuole pernottare, ha recuperato vecchie colture tipiche. Mi ha parlato con una passione trascinante: ogni domanda era una scusa per approfondire e ricordare aneddoti, come quello della maestra e del parroco, che contribuirono allo spopolamento del paese quando decisero di scendere a valle. Mi ha presentato orgoglioso due ragazzi canadesi arrivati con il WWOOF: con lui coltivano gli orti, lo aiutano a scaricare la vecchia teleferica per i rifornimenti, tengono puliti i sentieri. Roberto, come tutti quelli che arrivano a Codera, percorre la mulattiera che inizia a Novate Mezzola: lascia il bosco, supera la scalinata sotto il sole, si fa strada per i terrazzamenti di Avedee e si gode il panorama che spazia fino al Monte Gruf. Chissà quante volte ha percorso questa via. Supera le cappelle votive, il cimitero ed entra nella piazza d’erba di Codera, costeggiando l’imponente campanile staccato dal corpo della chiesa di S. Giovanni Battista, eretta nel XVI secolo. Non serve che me lo spieghi: qui il grande protagonista è il sanfedelino, il granito chiaro con cui sono fatte la maggior parte delle case della valle. I balconi si affacciano su stretti viottoli e su orti rigogliosi dove crescono patate e fagioli, orzo, segale, granoturco.  Si ha come l’impressione di essere in una cartolina: la sua scuola, l’ufficio postale, i lavatoi, i tetti spioventi incorniciano un paese in cui l’unico rumore è quello dell’acqua e del vento. L’atmosfera è ovattata: tutto si è conservato nei secoli grazie all’isolamento che ha preservato il centro abitato dal passaggio di eserciti, contribuendo a sviluppare un microcosmo contadino autosufficiente che sopravvive ancora oggi.

Il Rifugio Brasca, photo Arianna Gandolfi

Il Rifugio Brasca, photo Arianna Gandolfi

IN CAMMINO VERSO IL RIFUGIO BRASCA

Uscendo dal paese di Codera, la valle si apre nel frastuono dell’acqua: il sentiero attraversa le baite di Tiune (tiunée, m. 945, da tiùn, pino silvestre), i casolari di Beleniga (belénich, m. 1037), il maggengo di Saline (m. 1085), luoghi che un tempo erano abitati tutto l’anno dai picapréda e che oggi sono frequentati dalle terze generazioni di chi estraeva granito o dagli scout, che qui ritornano per onorare Le Aquile Randagie, un gruppo clandestino la cui storia risale al periodo del fascismo. Le baite senza riscaldamento ed elettricità punteggiano la mulattiera: si intravede il pizzo Barbacan e l’omonimo passo (m. 2598), che interseca il Sentiero Roma. Dopo Stoppadura, a Bresciadega la valle si apre: le vette aspre del Pizzo Ligoncio e la Punta Sfinge incoronano il Rifugio Brasca, dove termina il trekking in Alta Val Codera. Lo sguardo segue l’imponente muraglia a trecentosessanta gradi, dalla quale scrociano le cascate con fragore assordante e i torrenti sembra che scorrano verticali sulle pareti della montagna. Aperto solo durante la primavera e l’estate, il Rifugio Brasca è custodito da Mirco ed Elisabetta che lo gestiscono da circa sei anni. Geologo lui e psicoterapeuta lei, hanno deciso di custodire questo luogo costruito nel 1934 e bruciato per mano dei soldati tedeschi nel 1944. A loro il merito di viverlo come se fosse la loro casa. Elisabetta l’ho conosciuta in cucina: al mio arrivo preparava i pizzoccheri per la cena, mentre Mirco con rara gentilezza accoglieva gli ospiti. Elisabetta mi ha raccontato di quanto ami custodire la tradizione antica della pasta fresca imparata dalla nonna, durante la sua infanzia nelle Marche. Il cibo è uno dei fiori all’occhiello del Brasca: nonostante gli approvvigionamenti arrivino per via aerea, le preparazioni sono espresse per quanto possibile, e ogni giorno Elisabetta cucina per i suoi ospiti proponendo un menu fisso a cena e vari primi a pranzo ispirati dalla cucina tipica valchiavennasca e valtellinese. La colazione è uno dei pasti che ho apprezzato di più. Assaggiate il pane con i semi di papavero e i canditi cotto nel forno a energia solare e lo rimpiangerete ogni volta che, in un rifugio, vi proporranno cibi confezionati.

Arianna Gandolfi

https://www.valcodera.com/

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Arianna Gandolfi

Arianna Gandolfi

Arianna Gandolfi (1981). Dopo la laurea in Scienze della Comunicazione, si dedica al progetto Gastronauta e alla valorizzazione di distretti gastronomici, produttori e chef: dal 2003 al 2010 è responsabile editoriale del magazine online e partecipa alla ideazione di grandi…

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