Una campagna in Libano per le donne vittime di violenza

La condizione delle donne in Medioriente. La specifica realtà del Libano. Lo stupro, la violenza, la vergogna e il coraggio di denunciare. Una campagna di sensibilizzazione riporta l’argomento sulle piattaforme globali, con uno spot duro ed efficace. È il lungo cammino culturale, politico e sociale verso il rispetto e l'emancipazione.

La colpa, il peccato, lo stigma, la vergogna, l’onore. Termini che accompagnano spesso il calvario delle vittime, nella quotidianità o nella straordinarietà dell’abuso subito. Stupri, percosse, violenza fisica, psicologica, economica. Così, quantomeno, in quelle narrazioni residuali di stampo maschilista, moralista, patriarcale, tanto dure a morire anche nelle più evolute società occidentali: tra le aule dei tribunali, negli inciampi del linguaggio, nei vizi pigri del costume, nel perdurare degli stereotipi, negli echi di decrepite culture di massa, subdolamente introiettate dagli uomini e dalle donne stesse. Con tutta l’abilità di un sistema di potere che nella donna violata inculca l’autopercezione dell’errore, della macchia, dell’inadeguatezza: la violenza è forse meritata, magari provocata, certamente vissuta come infamia.
E poi ci sono luoghi del mondo in cui tutto questo è ancora norma, regime, vicolo cieco. L’inferno dell’Iran, per esempio, oggi teatro di una nuova escalation di ferocia che inghiotte la parola diritto in un buco nero. E così nel Libano, poco distante, Paese in cui la condizione femminile, come quella delle persone lgbtq, è ancora al centro di una dura battaglia.

Dirty Laundry, still video, 2023

Dirty Laundry, still video, 2023

I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN CASA: LO SPOT

Alleati imprescindibili restano educazione, informazione, comunicazione, nel lungo cammino per l’emancipazione, la presa di coscienza e l’affrancamento da schemi ideologici repressivi. Dalla scuola ai mass media, dal ruolo dei testimonial all’impegno di associazioni, comitati, movimenti, non si ferma l’azione di pressing e scalfittura rivolta ai governi, da un lato, e ai sistemi socio-familiari dall’altro.
È allora un segnale forte quello che può dare una campagna di denuncia dalla portata globale. È il caso dello spot confezionato dall’agenzia Leo Burnett – colosso internazionale con varie sedi in USA ed Europa – per Abaad, organizzazione libanese non profit impegnata nella lotta per la parità di genere e contro la violenza sulle donne. Al progetto ha collaborato anche l’eclettica attrice, cantante, artista visiva libanese Remie Akl. Il concpet si basa su un’espressione comune un po’ ovunque, quei “panni sporchi” che andrebbero lavati in casa, nascosti, mai pubblicamente esposti. Non a caso un lavoro che trova utili spazi di metafora nel linguaggio, tra le cui pieghe si annida l’eco di ciò che è collettivamente accettato, digerito, stratificato.
Dirty Laundry ha un registro emotivo incalzante, restituito da immagini non retoriche e da un testo di denuncia. Volti di donne, in marcia, a volto scoperto, tra le vie della città; stralci di documenti video, tratti dalla cronaca; set allestiti a favore di narrazione. Le file di panni stesi – prima relegati nel giardino di casa, poi coraggiosamente offerti agli sguardi di tutti, dai balconi spalancati – sono immediata allegoria di quelle storie da nascondere, delle voci da silenziare, delle stesse ragazze a cui le madri consigliano, o impongono, la legge del pudore e dell’omertà. Madri colpevoli di condannare le figlie alla propria stessa pena, ritenuta “normale”.
La cifra del dubbio domina le frasi pronunciate dalle protagoniste, da cui trapelano paura, voglia di riscatto e insofferenza per tutti coloro che si credono responsabili del loro “onore”. E poi il tormento, vissuto fin da bambine, del ‘non sapere’: chiedersi dove sia il giusto, il limite della sopportazione, il senso corretto dell’appartenenza a una cultura, il proprio posto nel mondo e nella società.

Che succede se non so se devo piangere o ridere? Se non so se parlare in arabo o in inglese, o se devo tacere in tutte le lingue?
Canto le mie parole o quelle scritte da qualcun altro?

Ho paura dello scandalo? Dopotutto, una donna desidera discrezione.
Che succede se non so se coprire ogni parte del mio corpo?
Devo essere orgogliosa di essere nata donna, o devo sentirmi colpevole?
Odiare mio padre, sia quando è sveglio che quando dorme?
Rispettare mia madre, per la famiglia che si è sforzata di mantenere? Oppure ce l’ho con lei e non avrò mai una famiglia mia?
Non so se dovrei rispettare la società e le sue tradizioni, oppure riderne.
Peso le mie parole, o impreco e mi strappo i capelli?
Prendo schiaffi e pugni?
Svegliarsi e predisporsi a prendere un caffè con i vicini e dire che mio marito è nervoso ma di buon cuore? O restare sulle scale e gridare affinché tutti mi sentano?
Camminare nell’ombra, per non espormi, o camminare alla luce del sole?

Dirty Laundry, still video, 2023

Dirty Laundry, still video, 2023

LA LEGGE IN LIBANO E LA CONDIZIONE FEMMINILE

La lotta per garantire il rispetto dei diritti delle donne in Libano è ancora aperta, ma conta alcune recenti vittorie. Mentre il diritto al voto arrivava nel 1952 e l’istituzione del divorzio nel 1959, solamente nel 2011 il codice penale libanese annullava il delitto d’onore e i relativi sconti di pena riconosciuti a chi uccideva la propria moglie, compagna, figlia, nipote o sorella, rea di aver macchiato l’onore della famiglia e del maschio. Ma se a cambiare la legge si giunge sulla spinta di un lavorio socio-culturale stratificato, utile a preparare un parziale terreno di accettazione collettiva, il riverbero effettivo sul piano del sentire comune è un fatto complicato, che chiede ulteriore tempo, dibattito, impegno.
Intanto, nel 2014, il Libano approvava la prima legge a tutela della violenza sulle donne, dopo anni di trattative, modifiche al testo e tentennamenti: obiettivo centrato, sulla spinta dei movimenti d’opinione, delle associazioni femministe e dell’indignazione generale per la valanga di abusi e femminicidi registrati ogni giorno. Una legge ancora troppo blanda, però. Le stesse istituzioni religiose si schierarono per indebolirne la portata: stralciato il passaggio sullo stupro coniugale, che è punito solo in caso di ferite fisiche, mentre la tutela data alla donna non include la presa in carico dei figli, e la protezione, da richiedere a uno speciale ufficio della Procura, non è assicurata sempre.
Infine, solo il 16 agosto del 2017, con l’abolizione dell’articolo 522 del codice penale, tramontava l’istituto del matrimonio riparatore, che garantiva l’immunità agli stupratori, in cambio di un “rattoppo” dinanzi all’altare: un mostruoso contratto tra vittima e carnefice, naturalmente a mero beneficio di quest’ultimo.
In Italia, lo ricordiamo, la stessa legge veniva abolita nel 1981, insieme a quella sul delitto d’onore, grazie alla battaglia della giovane Franca Viola. E solo con la legge n. 66 del 15 febbraio 1996 lo stupro veniva definito un crimine contro la persona e non contro la morale pubblica.

Dirty Laundry, still video, 2023 2

Dirty Laundry, still video, 2023 2

VIOLENZA, VERGOGNA, POTERE. IL TEMA DELLA DENUNCIA

La morale pubblica, per l’appunto. Un tema che in Libano ha ancora un peso notevole. Lo stesso poso attribuito a quel senso di colpa e di vergogna che sono condanna doppia ed ennesima ingiustizia per chi sconta il dolore dell’abuso. Nel 2022 l’associazione Abaad conduceva una ricerca sulla violenza sessuale registrata in territorio libanese, verificando che appena 6 donne su 10 aggredite sessualmente decidevano di denunciare. Il 71% delle intervistate, inoltre, dichiarava che per la società lo stupro era visto come un attacco all’onore della famiglia. La logica che sottende questa madornale distorsione è la stessa, ovunque: lungi dall’essere considerata soggetto, individuo con una propria dignità e autonomia, la donna verrebbe vista come particella di un sistema, strumento di una comunità gerarchicamente organizzata in senso patriarcale.
Scriveva Carla Lonzi, all’inizio del suo “Sputiamo su Helgel” (1970), testo seminale e radicale della letteratura femminista europea: “Problema femminile significa rapporto tra ogni donna – priva di potere, di storia, di cultura, di ruolo – e ogni uomo – il suo potere, la sua storia, la sua cultura, il suo ruolo assoluto. Il problema femminile mette in questione tutto l’operato e il pensato dell’uomo assoluto, dell’uomo che non aveva coscienza della donna come di un essere umano alla sua stessa stregua”. Per Lonzi, mezzo secolo fa, persino l’emancipazione raggiunta (o concessa) si sarebbe inserita all’interno di un modello sociale ed economico obsoleto, di un mondo progettato dall’uomo, dunque autoritario, basato sulla proprietà e la sopraffazione, incapace di concepire l’irruzione del diverso e dell’imprevisto.

Dirty Laundry, still video, 2023

Dirty Laundry, still video, 2023

L’importanza di realtà come Abaad, in quei territori dove tutto questo ha ancora il sapore del conflitto più aspro, è definitiva. Incoraggiare alla denuncia è obiettivo prioritario: un tema che è al centro di molte campagne di comunicazione e di sensibilizzazione anche in Occidente. Obiettivo vano qualora non si spinga a sufficienza sulla messa a punto di sistemi in grado di proteggere le vittime, di arginare il rischio di ritorsioni e di perseguire con fermezza i carnefici. Ogni falla, nel meccanismo politico-giuridico, si traduce in nuove morti. E in una pericolosa sfiducia nella scelta difficile – in certi contesti persino eroica – di sottrarsi, di esporsi, di denunciare.

Nessuno osava parlargli, perché era armato. Sono stata molestata sessualmente e violentata per 6 anni. Ogni giorno insulti, violenza e botte.
Ho provato più volte a uccidermi.

E i padri, i fratelli, gli amici e gli estranei erano tranquilli. Camminavano all’aria aperta.
Io resto in silenzio, lui continua.
Io dico no, vengo minacciata.
Io dico no, vengo inseguita.
Io dico no, vengo picchiata.
Io dico no, vengo uccisa.
Ma non oggi. Ma non domani.
Perché, che succede se il bucati viene steso fuori? Che succede se alcune donne sono state violentate e uccise? Come potevo non stendere fuori questi panni?
E in ogni caso, questi non sono panni, è un crimine. Un crimine a tutti gli effetti.
E noi vogliamo una sentenza, altrettanto pesante di questo crimine”.

Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, giornalista, editorialista culturale e curatrice. Ha innsegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a…

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