Carta impiegata come mappa, traccia, magazzino, reliquiario. Carta, che non è solo superficie, ma già funambolica costruzione. Denis Riva (Cento, 1979) la piega, la rovina, la fa scendere dal soffitto, fino a creare una parvenza di labirinto che sconfina nell’assurdo, nel molteplice, nell’abracadabra. “La porto sempre con me”, dice l’artista. In fondo è come se fosse una pelle, un’interfaccia tra il suo corpo e il mondo. La pittura vi traccia sopra segni di un paesaggio in continua mutazione. Segni e non sogni, avrebbe detto Licini, perché i sogni sono una forma di conoscenza, rivelano una verità seppure rimossa. I segni di Riva, invece, non presuppongono la conoscenza. Il loro significato è sempre oscuro e irraggiungibile. Nel suo universo tutto si capovolge. Egli coltiva l’informe: una popolazione di ombre, di cose non nate (o già defunte), di spettri, una marea vischiosa di esseri, una lava di apparizioni. E una grande carta (di cinque metri di base) dà proprio la sensazione di una continuità di regni, di una mescolanza di mondi. Come Klee, egli non mira a riprodurre il visibile, ma a “rendere visibile”: a far intuire l’infinità di fibre impercettibili, di linee ipotetiche che abitano la terra e il cielo, il qui e l’altrove.
Luigi Meneghelli
Arzignano // fino al 26 marzo 2016
Denis Riva – Carte Sospese
ATIPOGRAFIA
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