Quando il mondo divenne Pop. Alla Tate di Londra
La Pop Art nasce in Inghilterra ed esplode negli Stati Uniti. Poi arriva in Europa e spopola. Questa più o meno la vulgata. Ma che dire di tutti quegli artisti della seconda generazione? Erano russi, spagnoli, giapponesi… Una mostra alla Tate Modern colma una lacuna. Oppure s’inventa di sana pianta un fenomeno? Andate a vederla anche voi se siete a Londra durante Frieze.
LA SECONDA ONDATA POP
“Questa non è una mostra sulla prima ondata Pop”, dice una delle curatrici dell’esposizione sulla Pop Art allestita alla Tate Modern di Londra. Non un panorama su Andy Warhol, Richard Hamilton e Roy Lichtenstein; nessuno dei soliti anglosassoni che, negli Anni Sessanta, hanno ridicolizzato la società dei consumi utilizzandone il gergo e le strategie: manifesti, marche, riviste, imballaggi, slogan, ready-made ecc.
Sulle pareti, sui pavimenti, sulle basi e nei video c’è la “seconda ondata pop” creata da artisti poco noti, giunti da ogni angolo del mondo, il cui merito è stato quello di appropriarsi dell’estetica della Pop Art per riflettere sulle rispettive realtà politiche e sociali.
LA GUERRA FREDDA SULLO SFONDO DEI CARTOON
In Russia negli Anni Settanta Vitaly Komar e Alexander Melamid producevano una serie di oli chiamati Post Art che, appropriandosi di immagini note della Pop Art, rappresentano i non facili rapporti tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Versioni bruciate della Campbell’s Soup di Warhol e frammenti del fumetto di Lichtenstein, As I Opened Fire, presentate come relitti di un’altra epoca; quel che resta di una catastrofe, frammenti di una realtà vista solo a pezzi, come il fregio di un fresco romano in una villa di Ercolano. Commento ironico alla fantasia di un disastro imminente sul suolo americano, o piuttosto uno sberleffo al desiderio russo di salvare la società americana dalla sua meritata fine? Qualunque sia la risposta, una delle caratteristiche Pop più significative, l’appropriazione, viene riutilizzata per affrontare questioni politiche, in particolare la Guerra Fredda.
Equipo Crónica, un collettivo di pittori spagnoli trattava questioni simili negli stessi anni. La tela del ‘68, Social Realism and Pop Art in the battlefield, rappresenta il timore europeo di perdere la propria identità visiva durante la Guerra Fredda. L’opera combina lo sfondo della giungla di Henry Rousseau con figure del Realismo Socialista russo e con loghi pop. Tornano la zuppa Campbell, i vari Voomp! e Maahw!, ma una più attenta osservazione fa notare che l’intero campo di battaglia sia un fumetto proveniente dalla mente di El Greco. L’identità visiva spagnola (e quindi europea) esiste solo come un commento alla lotta tra i due centri del superpotere che si contendono l’impero delle immagini? El Greco è il pensatore, il paesaggio è di Rousseau, eppure entrambi sono semplificati, spogliati dalle complessità originarie e degradati a una realtà da fumetto.
IL POP DAL SOL LEVANTE
“Una delle sorprese della nostra ricerca”, fa notare la curatrice Jessica Morgan, “è come la Pop si sia sviluppata simultaneamente in tanti Paesi, da gruppi di artisti che vivevano vicini geograficamente ma con pochi o addirittura senza contatti tra di loro”. In altre parole, la seconda ondata pop è un fenomeno intrinsecamente globale e, se uno dei meriti dell’esposizione è mostrare che la Pop Art non è stata soltanto anglo-americana, l’altro è la scoperta del Pop giapponese.
Diversamente da altri artisti della seconda ondata pop, i giapponesi negli Anni Settanta avevano già sviluppato il proto-Pop dovuto sia all’attrazione nipponica per l’Occidente che alla sua forte cultura grafica. Tendenze fiorite entrambe durante i sette anni di occupazione americana.
Doll Festival (1966) di Ushio Shinohara è un esempio di come il Pop giapponese si sia sviluppato come continuazione del proto-Pop. Doll Festival è parte di una serie, Oiran, e fa riferimento sia alla tradizione giapponese della festa annuale in cui si prega per le giovani donne, sia agli ukiyo-e, incisioni su legno del periodo Edo (dal XVII al XIX secolo) prodotte in massa e raffiguranti la vita di città. L’opera – un trittico di pannelli di plastica su compensato – mostra cinque figure giapponesi sotto un albero di ciliegio in fiore. Senza volti, nelle pose delle stampe ukiyo-e, le figure sono coinvolte in una attività di cui lo spettatore sa poco o niente; una di queste, la centrale, porta una bombetta, due crisantemi sul bavero della giacca e due spille di bandiere giapponesi. L’accostamento tra bandiere giapponesi, crisantemi e un completo occidentale si era già visto nelle incisioni ukiyo-e, ma è in Doll Festival che il nuovo Pop prende forma nei colori accesi fosforescenti, nei materiali commerciali e a basso costo e nelle strategie come replica, appropriazione e serializzazione.
Anche Crayon Angel (1975) di Keiichi Tanaami è un commento alla brusca americanizzazione del Giappone, che utilizza un linguaggio americano ed esprime sentimenti ambivalenti nei confronti del colonizzatore, visto sia come seduttore che come distruttore. Il video di tre minuti, composto da immagini disegnate a mano dall’artista, da foto e filmati d’archivio della Guerra sul Pacifico, esplora la memoria collettiva e individuale. Sognatrice e autobiografica, l’opera è un’atipica testimonianza del bombardamento di Tokyo. Come l’amico Shinohara, Tanaami superò il trauma diventando anche uno studente scrupoloso dell’American Pop Art, ma il suo rapporto con gli Stati Uniti resta ambivalente e critico.
QUANDO LA CRITICA INVENTA UN MOVIMENTO
Che persino la Pop Art giapponese sia stata scartata durante i primi tentativi di canonizzare il movimento, non sorprende. Centinaia di artisti che vivevano fuori dell’asse Londra e New York che usavano l’estetica pop “per dare voce alle loro convinzioni politiche e sociali”, furono ignorati dalla critica. La mostra si propone di rimediare a tale omissione e, se riesce a mostrare e definire aspetti e protagonisti di una pop art trascurata, dà però anche la sensazione di essere il risultato di un’équipe di curatori piuttosto che la cronaca di un fenomeno realmente esistito.
Sarà per questo che, nel tentativo di correggere la nozione canonica secondo la quale il Pop sarebbe un movimento solo anglosassone, The World Goes Pop riafferma la storica divisione tra il modello anglosassone e le sottospecie di “altre pop”. La presenza di Andy Warhol, Roy Lichtenstein e Richard Hamilton si sente in ogni sala, riaffermando la loro egemonica presenza.
Maria Pia Masella
Londra // fino al 24 gennaio 2016
The World Goes Pop
a cura di Jessica Morgan
TATE MODERN
Bankside
+44 (0)20 78878888
[email protected]
www.tate.org.uk
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati