Alla ricerca dell’Oriente perduto
Da una parte l'americana Lynn Davis, che con il suo obiettivo riproduce il mondo come fosse un'immensa, infinita reliquia. Dall'altra l'indiana Hema Upadhyay, che vede scomparire gli dei millenari della sua terra precipitati negli inferi dell'omologazione culturale. Allo Studio La Città di Verona, fino al 17 marzo.
La fotografa americana Lynn Davis (Minneapolis, 1944) insegue da sempre la vita che abita le forme del tempo. Le sue grandi stampe non sono a caccia dell’”estetismo della rovina” o del filologismo dei resti, ma della coreografia di un sintomo, di una energia residua, di una morte paradossalmente continuata. Lei si pone di fronte ai luoghi del culto antico, agli spiriti smarriti, per esorcizzarne la sparizione e farli partecipi di un “eterno ritorno”.
Certo, tutto ha conosciuto la consunzione del tempo, tutto è diventato una sorta di monumento della significazione perduta: templi, piramidi, stupa. Ma tutto continua a essere osservato come fosse un “fenomeno originario”, un’architettura che “rinasce” sotto gli occhi. È lo sguardo sul passato al quale viene conferita un’esistenza differita, differente. È la punta di una piramide che pare sorgere dal fondo dell’orizzonte, è il tempio di Virupaksha in India che riappare con la sua superficie così scolpita da smarrire l’originaria struttura architettonica… È tutto un sapere visivo sorpreso da inquadrature severe e ricercate, ma anche virate come in una stampa vintage.
L’obiettivo è fornire l’immagine di luoghi senza tempo, fatti di plasticità, ma soprattutto di mobilità e metamorfosi. E come controcanto a questa atmosfera di un “passato attualizzato”, si può ascoltare una compilation di musiche di Philip Glass, uno dei padri della musica minimalista: un suono sintetico, universale, antico, il suo, su cui si innestano inusuali e impreviste figure melodiche capaci di risvegliare emozioni profonde e sopite.
Ed emozionanti sono anche i trecento uccelli in creta dipinta che, in un’altra sala della galleria, presenta l’indiana Hema Upadhyay (Baroda, 1972). Anche qui, se vogliamo, tutto il gioco di colori e mimetismi, nasconde un trauma antico, che è quello della povertà, dello sradicamento, della migrazione. Non sono solo prodotti di alto artigianato, ma anche la visualizzazione di un’idea, di una visione sempre più “tragica” del mondo. Come, del resto, accade pure con i sei pannelli disposti sulle pareti: a prima vista sembrano tappezzerie astratte, mentali, paradossali; in realtà sono carte su cui veli di colore si mescolano con collage di figure e di oggetti quotidiani presi dalla pubblicità.
È un po’ il simbolo di una terra magica, dove tutti i misteri e gli enigmi si rovesciano negli effetti di una sfolgorante e inquietante modernità e dove ogni tradizione millenaria precipita nell’istantaneità e nell’irrealtà del consumo e della virtualità uniforme.
Luigi Meneghelli
Verona // fino al 17 marzo 2012
Lynn Davis
a cura di Elisabetta Piatti
Hema Upadhyay
a cura di Marco Meneguzzo
STUDIO LA CITTÀ
Lungadige Galtarossa 21
045 597549
www.studiolacitta.it
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