Moda e sostenibilità. Se Greenpeace ci mette lo zampino

L’impegno di Greenpeace al fianco dell’ambiente è un fatto noto, così come quello messo in campo per scardinare i meccanismi “viziosi” dell’industria dell’abbigliamento. Qualche esempio? L’uso di sostanze inquinanti e l’eccessivo consumo di prodotti tessili.

Il primo dossier dedicato alla moda Greenpeace lo ha presentato nel 2011. Detox my fashion è nato quasi per caso, come ci racconta Chiara Campione, International Project Leader della campagna di sensibilizzazione che ne è scaturita. Nell’ultimo dossier, Fashion at the crossroad (2018), Greenpeace raccoglie quasi 400 esempi di alternative al modello corrente di industria della moda, che consuma troppe risorse. Viene così presentata una rassegna di soluzioni già praticate che aiutano a disegnare un futuro più sostenibile per la produzione di tessuti e abiti.

Perché avete iniziato a occuparvi di abbigliamento?
L’innesco è stato casuale. Una serie di campionamenti effettuati per comprendere le ragioni della contaminazione di una parte delle risorse idriche del sud-est asiatico ci ha messo di fronte a fiumi colorati di verde acido o rosa fucsia.

La ToDoList per una moda consapevole © Artribune Magazine

La ToDoList per una moda consapevole © Artribune Magazine

Cosa stava succedendo?
Siamo risaliti a distretti tessili in cui avvenivano processi a umido utilizzando grandi quantità di sostanze chimiche pericolose contenute in coloranti o impermeabilizzanti. Quei fiumi dell’Indonesia, delle Filippine o della Cina erano colorati con gli stessi colori di tendenza intravisti sulle passerelle poco tempo prima.

Come avete proceduto?
Una volta individuati i distretti tessili – con non poca fatica – siamo risaliti ai nomi dei brand che li utilizzavano. Contemporaneamente abbiano iniziato lo screening chimico per individuare quali sostanze chimiche pericolose fossero responsabili di quel che vedevamo. La campagna Detox my fashion è nata così: da una parte c’è l’elenco delle aziende individuate e a fianco le tabelle delle sostanze chimiche pericolose utilizzate nelle loro filiere, con la specifica del luogo di utilizzo e dei capi coinvolti.

Le sostanze rilevate nelle acque dei fiumi sono presenti anche nei capi messi in vendita?
Purtroppo sì. Alcune di queste sostanze hanno un impatto devastante sull’ambiente: nella maggior parte dei casi sono persistenti, non si degradano anche per decenni. Altre sono interferenti endocrini, come quelle che causano la femminilizzazione dei pesci. Le une e le altre raggiungono tutti noi attraverso la catena alimentare, ma anche attraverso i capi che indossiamo – sebbene qui siano presenti in concentrazioni inferiori.

Il problema da affrontare ora è il consumo eccessivo dei prodotti tessili”.

Detox my fashion risale al 2011. Da allora è cambiato qualcosa?
La campagna è iniziata ponendosi come target prima le aziende dello sportswear responsabili di questa situazione. Siamo poi passati al fast fashion, poi al luxury e infine ci siamo concentrati su quelle dell’outdoor, che utilizzano grandi quantità di impermeabilizzanti.

Con quali risultati?
Da allora, ottanta grandi aziende, di cui sessanta italiane, hanno aderito all’iniziativa che prevede l’impegno a diffondere su piattaforme pubbliche tutte le analisi e i passi avanti fatti per sostituire l’utilizzo di chimica nociva con altri procedimenti. Ora la campagna Detox è in fase di chiusura, ma abbiamo previsto una timeline 2011-2020 che continuiamo a monitorare. Dall’ultimo assestement, che risale al 2018, risulta evidente che la campagna ha prodotto effetti positivi non solo per le aziende che hanno aderito apertamente alla campagna, ma di natura indiretta: molte altre hanno fatto passi decisi in questa direzione – almeno il 15% della produzione mondiale (in termini di fatturato) ha rinunciato all’utilizzo di sostanze chimiche pericolose tra quelle segnalate nel 2011. Le concentrazioni di queste sostanze negli indumenti e nelle acque sono sensibilmente diminuite e pochissime sono rimaste in circolazione.

Tutto bene, dunque?
Non proprio. Il problema da affrontare ora è il consumo eccessivo dei prodotti tessili. L’economia circolare è sulla bocca di tutti, ma dietro questa bella etichetta si nasconde un sogno impossibile: la circolarità non può risolvere il problema del consumo eccessivo di risorse. La moda a un bivio è il nostro ultimo report: suggerisce un approccio olistico per tentare di chiudere il ciclo di vita dei prodotti tessili – un modo molto più complesso di quello attualmente sbandierato dagli uffici marketing dei brand.

Aldo Premoli

https://www.greenpeace.org

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #52

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Aldo Premoli

Aldo Premoli

Milanese di nascita, dopo un lungo periodo trascorso in Sicilia ora risiede a Cernobbio. Lunghi periodi li trascorre a New York, dove lavorano i suoi figli. Tra il 1989 e il 2000 dirige “L’Uomo Vogue”. Nel 2001 fonda Apstudio e…

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