Benedetta Bruzziches. Borse, artigianato, antichi saperi e un pizzico d’Oriente
Designer di borse, realizzate a mano in un laboratorio nella provincia di Viterbo, Benedetta Bruzziches è partita da zero. Ma poi è riuscita a costruire il suo castello fatato, riuscendo a vendere le sue creazioni in tutto il mondo. Abbiamo intervistato lei che ce l’ha fatta, pur essendo nata nel 1985 a Caprarola: perché non sempre “giovane” e “provinciale” sono aggettivi negativi.
Abbiamo conosciuto Benedetta Bruzziches (Caprarola, 1985) in occasione del suo open studio di domenica 13 aprile: entrando sembrava di accedere a un mondo parallelo, incantato e pieno di magia. Oltre alle sue creazioni, ovunque moltissimi oggetti, tra design, libri e opere d’arte, vivaci e non trascurabili motti scritti in ogni dove sulle pareti.
Le borse di Bruzziches non sono solo prodotti: condensano nella loro fisicità moltissime sfaccettature. Talmente particolari, rifinite nei dettagli preziosi, scalpitanti di un’eccentrica personalità, da guadagnarsi l’appellativo di artwork. Ma non solo: sono anche espressione di particolari tecniche artigianali, in ogni collezione una diversa, magari non più usuali o addirittura in via di estinzione, che lei recupera e rilegge adattandole in chiave contemporanea.
L’opening del tuo studio è andato benissimo. Tante persone, chi curioso, chi tentato dalla voglia di acquistare una delle tue creazioni, un’atmosfera calda e familiare. Lo fai spesso?
Sì, mi piace coinvolgere la città di Viterbo in quello che faccio. Spesso apro le porte dello studio anche durante gli shooting: mi piace vedere le persone che curiosano tra il marasma che si crea.
Hai cominciato a muovere i primi passi nella moda, poi un viaggio in India – come racconti nel tuo sito – ha rivoluzionato il tuo percorso, sempre costellato di incontri e confronti. Quanto è distante il contenitore moda oggi?
Prima di tutto io provengo da un mondo semplice e genuino: Caprarola, vicino a Viterbo. Un mondo fatto di persone che lavorano la terra, ed è da quando ho sei anni che vado ad aiutare i miei genitori a raccogliere le nocchie. Questo mi ha salvata, mi ha tenuto con i piedi per terra, anche se la mia testa è sempre stata fra le nuvole.
La moda è un mondo in larga parte autoreferenziale, non sento di farne parte, sia da un punto di vista creativo sia da un punto di vista strutturale. Una delle domande che spesso mi rivolgono è se mi voglio ingrandire, se penso di costituirmi un domani come monomarca. No, non ambisco a questo, voglio continuare a fare un lavoro che per me abbia senso. Posso pensare di cambiare il mondo? Posso farlo attraverso una collezione di borse? Sì, questo è il senso che trovo al mio lavoro oggi: recuperare l’artigianalità, conservare il patrimonio proveniente dalle mani.
Infatti uno dei tuoi punti saldi è l’attenzione al mondo dell’artigianato: non a caso chiami i tuoi collaboratori “artigianauti”, sottolineando l’ambivalente presenza di artigiani e naviganti di sogni. Noto una vera e propria attenzione al recupero e alla tutela, oserei dire, di questo campo del sapere manuale che stiamo via via perdendo…
Io credo che l’artigianato abbia rappresentato la meditazione per il nostro mondo occidentale. Soprattutto per noi, l’Italia è una nazione costruita con le mani, dalle sue magnificenze culturali ai suoi saperi tradizionali e tipici di ogni regione, abbiamo sognato in grande e abbiamo realizzato con le mani questi sogni. Il grande cambiamento che ha condotto alla morte dell’artigianato ha segnato non solo una grave perdita, ma anche un offuscamento per tanto tempo nel modo di concepire l’artigianato stesso, come qualcosa di cui vergognarsi, come qualcosa di “serie b”, ed è inammissibile. Perdere il contatto con il fare è una perdita che non riguarda solo il fronte economico, ma anche umano. Ci stiamo dimenticando che con le mani possiamo realizzare tutto quello che pensiamo, questo sta succedendo.
Realizzare “cose” con le mani può essere quindi una risposta attiva in un momento storico di stasi che non è solo economica, come si legge spesso, ma soprattutto di “valori”?
Riappropriamoci di una consapevolezza: artigianato vuol dire meditazione, è come un mantra, interiormente scatta una molla indescrivibile, vedere qualcosa di concreto realizzato con la propria fatica dà una soddisfazione paragonabile a una nascita. È una nascita. Sì, l’artigianato può essere una risposta possibile alla crisi.
A proposito di fatica, il 2014 è partito in quinta per te: la settimana della moda a Parigi e a Milano, il ciclo di conferenze a cui stai partecipando. E sei una delle otto figure imprenditoriali raccontate da Corrado Formigli nel suo Impresa Impossibile.
Il suo libro è uscito il 2 gennaio e racconta di grandi aziende italiane, la Mutti, la Venchi, l’Alessi e via dicendo, io rappresento uno spaccato diverso all’interno di questa rosa di esempi. Spesso sono presente in giro per l’Italia durante la promozione del libro e mi ha portato in tv a Pane Quotidiano da Concita De Gregorio: un mio grande mito, ero emozionatissima, una donna straordinaria, direttrice de l’Unità, donna e madre, e sono davvero contenta per tutto quello che si sta profilando. Mi hanno trovato su Internet, sono incappati nella mia storia e si sono appassionati, così Formigli è venuto un paio di giorni a conoscermi meglio, siamo stati a Caprarola nel mio laboratorio e mi ha inserito nel suo libro, che dà appunto uno spaccato di tanti profili dell’Italia e di tipologie d’impresa diverse.
Tu rappresenti la persona giovane – non hai ancora trent’anni – che è partita da zero e ha costruito qualcosa di solido. Un’azienda a gestione familiare e un laboratorio che definisci “diffuso”. Spiegaci meglio questa rete di persone che ruota attorno al tuo lavoro.
Quando tutto è cominciato, le risorse non c’erano, se non quelle familiari e gli amici. Ho scoperto dopo che questo, a livello burocratico, avrebbe rappresentato un problema. Per me famiglia e amici hanno rappresentato “la risorsa” più importante per andare avanti, se avessi saputo forse avrei rinunciato. Troppa burocrazia uccide le ambizioni, questo va detto. Quando parlo di “laboratorio diffuso” intendo racchiudere un aspetto importante del mio lavoro, che è quello delle sinergie fra competenze diverse e arti diverse. Ad esempio Carmen, la serie di punta della mia collezione, nasce dall’unione tra i miei collaboratori che realizzano borse e alcuni tappezzieri; oppure la serie del Libro, nata dall’incontro con i relegatori. Abbiamo imparato a fare le copertine dei libri e poi abbiamo applicato la stessa tecnica a una borsa. Le mie borse sono questo: storie di artigianati diversi che tento di recuperare e di portare all’interno del mio mondo.
Chiudiamo con la tradizione, una tradizione a cui tieni molto, che ospiti e fai conoscere sui tuoi canali online, che è quella della Tuscia.
Sì, io tengo tantissimo a mostrare la ricchezza di questo territorio…
… di cui auspichi anche una rivoluzione culturale.
Sì, e non solo per la Tuscia. Comunque sono molto legata alla terra, alla mia terra d’origine, perché averla osservata, lavorata, mi ha dato tanto, tutto quello che so proviene da lì. Pianti un seme, cresce, se tu fatichi e questo ti ripaga con i frutti, dopo cura e dedizione. Per me il territorio è una missione e forse sarà per questo, per il mio passato, per il mio rapporto così viscerale e fisico con la terra.
Giorgia Noto
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