Autoprogettazione e metodo. L’insegnamento di Enzo Mari e degli Anni Settanta in tempo di quarantena

Tra il 1973 e il 1974, mentre Enzo Mari cominciava a prendere le distanze dal sistema dell’arte per concentrarsi sul design, la Galleria Milano ha allestito due mostre importanti. Che oggi tornano d’attualità, oggetto di una riproposizione filologica che vedremo in autunno o come punto di partenza per un esercizio da fare a casa, durante il lockdown. Ce lo racconta Nicola Pellegrini.

Se tutto fosse andato secondo i piani, questa avrebbe dovuto essere la primavera di Enzo Mari. Alla Triennale era prevista l’apertura di una grande retrospettiva curata da Hans Ulrich Obrist e dedicata alla sua carriera di designer tra i più rigorosi ed eticamente centrati.
Alla Galleria Milano, il 23 marzo, si sarebbe dovuta inaugurare Falce e martello. Tre dei modi con cui un artista può contribuire alla lotta di classe, ricostruzione filologica della mostra allestita nello stesso spazio nel 1973, che allora suscitò grande scalpore e che viene ricordata come un momento importante della vita artistica di Mari. Allora lo spunto per la riflessione su uno dei simboli più duraturi e universalmente compresi del Novecento era stato l’esercizio proposto a una studentessa, Giuliana Einaudi: dopo aver raccolto dati in maniera il più possibile onnicomprensiva, prendendo in esame una serie di fonti, dai volantini dei partiti alle bandiere e agli emblemi sui muri, si arrivò alla progettazione di una serie di artefatti. Oltre ai due oggetti d’uso comune e a una grande scultura lignea, vennero esposte alcune bandiere in lana serigrafate in diversi colori, una serigrafia in due colori e una litografia che riproduceva gli esiti della ricerca con 168 simboli. Più tardi, nel 1977, la falce e il martello diventeranno il soggetto anche di una sorta di puzzle, ideato dallo stesso Mari per la Biennale di Venezia, alla quale partecipa con una sala personale.

Monica Bonvicini, Legscutout #3, 2014, collage, cut out paper, pigment print on Hahnemühle Photo Rag, 61 x 90 cm. Courtesy l'artista

Monica Bonvicini, Legscutout #3, 2014, collage, cut out paper, pigment print on Hahnemühle Photo Rag, 61 x 90 cm. Courtesy l’artista

AUTOPROGETTAZIONE, UN ESERCIZIO PER LA QUARANTENA

Nell’attesa della mostra (che a quanto pare aprirà in autunno, o comunque quando ci saranno le condizioni di sicurezza necessarie), Nicola Pellegrini, artista che ha da poco preso le redini della Galleria Milano dopo la scomparsa della madre Carla, guarda al lavoro di Enzo Mari per un altro progetto curato con Toni Merola e Bianca Trevisan e pensato per questo periodo di quarantena. Il punto di partenza è un’altra mostra di Mari ospitata dalla galleria negli Anni Settanta, Proposta per un’autoprogettazione, nella quale il designer-artista offriva disegni progettuali e istruzioni con cui chiunque si sarebbe potuto cimentare nel costruire una serie di mobili. Oggi, il contesto è cambiato ‒ per esempio, ci siamo abituati ad assemblare da soli i nostri mobili, è addirittura la più importante multinazionale del mobile a livello mondiale a chiedercelo ‒, ma il fai da te può essere ancora un esercizio utilissimo. Chiusi in casa per colpa del virus, possiamo per esempio riprodurre un’opera d’arte seguendo le indicazioni dell’artista e usando materiali semplici a disposizione di tutti. Riprogettare un’opera d’arte diventa, nelle intenzioni dei curatori dell’operazione, un modo per ripensare la nostra stessa esistenza in tempo di crisi.
L’idea è nata come reazione istintiva quando ci siamo trovati confinati in casa in una situazione di grande incertezza” spiega Pellegrini. “Abbiamo provato a immaginarci oltre un miliardo di persone nel mondo isolate dentro le mura domestiche e abbiamo pensato che si trattasse di una sorta di rito di passaggio globale. Da sempre le pandemie hanno spinto le donne e gli uomini a rompere con sul passato e a (ri)immaginarsi nuovi modi di vivere. Siamo tutti più o meno consapevoli che stiamo vivendo un radicale momento di passaggio tra un mondo che conosciamo e un altro nuovo, radicalmente diverso. Arundhati Roy lo ha ben descritto come una soglia, una porta che dobbiamo scegliere come attraversare”.

DAL MERCATO AL CORPO

Se l’autoprogettazione di una sedia o di un tavolo era per Mari un modo per sottrarsi ai meccanismi produttivi dominanti, su larga scala, un approccio diretto e partecipativo all’arte come quello proposto può aiutare a superare le dinamiche di mercato che determinano la fruizione delle opere andando verso la logica contraria, quella del dono. Nicola Pellegrini prosegue con la sua analisi: “Se pensiamo che nel solo porto franco di Ginevra sono chiuse in scatole oltre un milione di opere d’arte, in attesa che il loro valore aumenti, forse questo tipo di mercato andrebbe abbandonato prima di varcare la soglia. Quale modo migliore per approfondire il lavoro di un artista che dedicargli il tempo e l’attenzione che implicano la realizzazione di un’opera? Per questo si tratta di un dono reciproco tra l’artista, che regala le indicazioni, e chi vorrà impiegare il proprio tempo per realizzare l’opera, restituendo alla fine la documentazione del lavoro fatto. Il valore simbolico del dono, così come l’approccio partecipativo ed ecologico, disturbano l’egemonia del mercato secondo cui un’opera esiste solo se ne fa parte”. Anche il ritorno a una manualità dimenticata, in questa sorta di Art Attack d’artista, sarebbe una questione di resistenza politica, un modo per riaffermare la centralità del nostro corpo di fronte all’avanzata del digitale. La riappropriazione del qui e ora prende strade diverse per i vari artisti che hanno partecipato al progetto.
L’esercizio di Ugo La Pietra, in linea con lo slogan “Abitare è essere ovunque a casa propria” da lui proposto fin dagli anni Sessanta, ci invita a tracciare i nostri itinerari abituali nel luogo in cui viviamo mappando la “nostra” città. La strumentazione richiesta è minima: bastano una mappa stampata, anche da internet, un foglio da lucido o un succedaneo casalingo, per esempio un pezzo di carta da forno, e una penna o una matita. Alessio Larocchi ci presenta una Piccola casa osmotica, un cartamodello da assemblare a partire da coupon che però si combinano tra loro in maniera errata e paradossale. Istruzioni errate, linguette che non combaciano e altri errori programmati conducono a un oggetto disfunzionale, un’architettura completamente destrutturata nella quale interno ed esterno si confondono. All’iniziativa hanno aderito oltre settanta artisti, chi segue le loro istruzioni può condividere le proprie realizzazioni su Instagram usando una serie di hashtag.

Falce e matello, installation view at Galleria Milano, 1973, photo Carla Pellegrini. Courtesy Galleria Milano

Falce e matello, installation view at Galleria Milano, 1973, photo Carla Pellegrini. Courtesy Galleria Milano

FALCE E MARTELLO, OVVERO COME IL PASSATO AIUTA A CAPIRE IL PRESENTE

E Falce e martello, che vedremo prossimamente in un remake perfetto ‒ in mezzo lustro, gli spazi della galleria non sono cambiati, perciò le opere verranno montate negli stessi punti ‒, in che modo può dimostrarsi ancora attuale? “Il tempo contenuto tra questi due momenti [i primi Anni Settanta e oggi, N.d.R.] rivela quanto sia forte la dissonanza tra il mondo globalizzato di oggi e gli anni in cui si aspirava alla lotta di classe. Un modo inaspettato per riflettere sul presente specchiandosi nel passato. E poi, soprattutto, c’è l’attualità di Mari che in quel periodo stava attraversando degli anni cruciali. È il momento in cui si allontana progressivamente da un sistema dell’arte che non riconosceva più come adeguato alla sua opera, per concentrarsi sul design. È una scelta che non viene accettata dal mondo dell’arte e che forse non è stata ancora del tutto capita”.

Giulia Marani

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Giulia Marani

Giulia Marani

Giornalista pubblicista, vive a Milano. Scrive per riviste italiane e straniere e si occupa della promozione di progetti editoriali e culturali. Dopo la laurea in Comunicazione alla Statale di Milano si specializza in editoria a Paris X-Nanterre. La passione per…

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