A lezione di rigenerazione urbana. Intervista all’urbanista Maurizio Carta
In uscita a fine giugno per LetteraVentidue, “Sette lezioni di rigenerazione urbana” è il nuovo libro dell’architetto, professore di Urbanistica e assessore alla Rigenerazione Urbana del Comune di Palermo. Le anticipazioni in questa intervista

Maurizio Carta ne è convinto: l’urbanistica dovrebbe evolvere “da una dimensione conformativa a una performativa”, in modo tale da consentire l’attivazione di processi di trasformazione, o per adottare un suo vocabolo, di “urbanogenesi”. Offrendo una definizione di rigenerazione urbana che recupera l’originario orizzonte biologico e scientifico, l’ordinario di Urbanistica all’Università degli Studi di Palermo, nonché direttore dell’Augmented City Lab e assessore alla Rigenerazione Urbana del Comune di Palermo, nel nuovo libro – in uscita a fine mese per LetteraVentidue – riunisce una gamma di esperienze rigenerative europee e italiane. Propone, soprattutto, un nuovo approccio al governo del territorio e delle città, che riesca a superare alcune rigidità dei tradizionali strumenti normativi e regolatori ed eviti atti predatori dannosi allo spazio pubblico e alla vita delle comunità urbane.
L’urbanista Maurizio Carta racconta il libro “Sette lezioni di rigenerazione urbana”
Con sette lezioni e oltre 600 pagine, il tuo nuovo libro è un’opera ponderosa. Definisci la rigenerazione urbana come “atto biopolitico”. Cosa significa?
Intendere la rigenerazione come atto biopolitico vuol dire che presuppone visione, conversazione permanente, negoziato, decisione. Attingere alla metafora biologica, che risale agli Anni Novanta, ribadisce che si tratta di una materia che ha a che fare con la natura, non con l’estrazione di valore, con la rendita o la convenienza economica.
Sembra che tu voglia svegliare e chiamare all’azione tutti coloro che amano le città (gli “urbamanti”, come li ribattezzi nella dedica iniziale). È questo il proposito?
Queste sette lezioni servono all’agire politico, ma non riguardano soltanto a coloro che sono già tecnicamente o istituzionalmente competenti in materia. Possono interessare tutti coloro che stanno dentro l’abitare urbano. Noi tutti, in pratica, o almeno quanti vogliono tornare a prendersi cura delle città. Sono pensate per un ampio spettro di lettori e per raggiungerli uso un linguaggio che è tecnicamente esatto, com’è giusto che sia, con riferimenti a progetti e storie di rigenerazione urbana. Racconto cosa è stato fatto in tante città, soprattutto europee e italiane. Ma è anche un libro aperto ad altre discipline, come l’arte, la letteratura o la moda, che permettono di capire che quello di cui parliamo, in fondo, è la nostra vita.

La rigenerazione urbana in Europa e il “caos Milano”
La prospettiva, in effetti, è eurocentrica, con vari affondi sull’Italia. A partire da quello su Milano, in cui non ti sottrai dall’affrontare la questione al momento più spinosa per l’urbanistica nazionale. Fai riferimento al “pericolo di fuga di sostanze tossiche”, che intendi?
Come altri, anch’io non guardo a Milano come a un modello. Tuttavia entrambe le due visioni estreme della città, per me, sono sbagliate: sia volerla innalzare a modello, sia criticarla come concentrato di nefandezza. Piuttosto preferisco intenderla come un laboratorio.
Ovvero?
Un laboratorio è un luogo in cui si sperimenta molto e in modo avanzato, si assorbono lezioni e insegnamenti che provengono da altrove. In tutti i laboratori, però, c’è il rischio di fuoriuscita di sostanze tossiche: gli esperimenti servono anche per farci intravedere i pericoli. Nel secondo capitolo affermo quindi che dovremmo ringraziare Milano di essersi fatta carico di essere un laboratorio per l’Italia, anche quando ha prodotto criticità, effetti indesiderati o indesiderabili, tra cui quelli legati alla gentrificazione. Ricordo poi che a Milano ci sono anche progetti interessantissimi, come quelli che provengono da quella riflessione internazionale, attenta al cambiamento climatico, che è l’esperienza di Reinventing Cities. Esistono, a Milano, una sensibilità e un’attenzione alle comunità che incoraggiano tutti e ovunque al ripensamento delle forme dell’abitare e del produrre.
Per descrivere Milano oggi hai coniato un ossimoro.
Senza voler nascondere tutte le criticità e le questioni ancora non risolte, per sottolineare la sua identità binaria la definisco un “magnete respingente”: un modo per indicare la contraddizione insita nel suo funzionamento. Come un grande magnete attrae, ma nello stesso tempo respinge alcune categorie, tra cui studenti e lavoratori. In alcuni casi produce delle condizioni che ci permettono di capire quali approcci, processi, strumenti, idee non dovrebbero essere perseguiti; in altri ci fa intravedere alcune traiettorie per affrontare questo grande tema della rigenerazione urbana, sul quale le istituzioni, il Parlamento, le università, i media sono oggi impegnati.

Oltre i masterplan, verso nuovi strumenti per la pianificazione e gestione del territorio
Oltre a Milano, ti soffermi su Bologna e Napoli nel capitolo “Basta con i masterplan! (Perché non funzionano più)”. Un titolo provocatorio. Va considerato come un appello a sviluppare nuovi strumenti?
Dietro la provocazione si nasconde una riflessione che nella mia ricerca va avanti da alcuni anni. Innanzitutto nel libro tento sempre di tenere separate e di distinguere la rigenerazione urbana, con il suo caratteristico approccio multidisciplinare, e l’urbanistica, intesa come uno degli strumenti che concorre a sorreggerla. Non voglio dire che i masterplan non servano più in nessun caso e che quindi debbano uscire dalla cassetta degli attrezzi degli urbanisti: penso, però, che non possano più essere l’unico approccio che utilizziamo, soprattutto quando dobbiamo intervenire nelle aree di ricerca urbana. Nei quartieri in crisi, centrali o periferici, nelle aree industriali dismesse, lì dove la domanda non c’è, dobbiamo lavorare in termini di stimolo della domanda stessa, di intercettazione di potenziali abitanti o fruitori, e quindi con le probabilità. Dobbiamo essere pronti a variazioni funzionali o dimensionali. Soprattutto oggi, che stiamo dentro a una contrazione demografica (se non addirittura di fronte a un pre-deserto demografico), la presunzione deterministica nei confronti delle città è impensabile.
E quindi come si deve agire?
Nelle aree di rigenerazione urbana, al posto dei piani regolativi servirebbero piani performativi, che lavorino per raggiungimento di performance, di obiettivi, di benessere, di indicatori di qualità. Invoco un approccio incrementale, che non presupponga un disegno completo e puntuale di tutto. Suggerisco la metafora del cartone sotto l’affresco: intravedo il disegno generale, ma per tratteggi. Quando comincio a disegnare, e quindi a costruire, assisto a come reagiscono i pigmenti con il muro e, volendo, posso ancora cambiare l’impianto complessivo. Sarebbe inoltre necessario un approccio adattivo, che rifletta la necessità che il progetto e il piano si vadano ad adattare alla risposta ricevuta dall’area in esame. Man mano che verifichiamo gli esiti, come istituzioni, comunità e progettisti, manipoliamo e adattiamo gli spazi anziché decidere tutto a priori.

Arte e cultura nei processi di rigenerazione urbana
Dall’analisi compiuta per il tuo libro, quali ritieni possa essere il reale contributo dell’arte e della cultura nei progetti di rigenerazione urbana?
Lo considero un apporto cruciale. Nella maggior parte delle lezioni, per ogni città trattata c’è un’attenzione a quanto è accaduto attorno ai temi della cultura, alle politiche creative, alla capacità di introdurre spazio pubblico performativo. Però questa crucialità impone di passare dall’attuale presenza o partecipazione del terzo settore o del settore culturale a una dimensione di maggiore corresponsabilità, con la disponibilità a entrare dentro al sistema di governance. Così facendo non soltanto si individua il problema, ma ci si prende carico dell’attuazione di alcune trasformazioni. Così si diventa responsabili della gestione condivisa di alcuni luoghi, anche privati. Questo è un passaggio complesso, che ai soggetti del terzo settore impone un cambio di mentalità e di strutturazione. Lo considero però un salto indispensabile, che nulla deve togliere alla creatività e all’informalità della loro azione culturale creativa, ma li renderebbe attori sempre più consapevoli nei processi di rigenerazione urbana.
Palermo, anche opportunamente, non è presa in esame nel libro. Quali sforzi, come amministrazione, avete messo in campo in città in ottica rigenerativa?
L’impegno si sta concentrando sul lunghissimo fronte al mare della città: 23 km, in cui negli ultimi 20 anni sono accaduti i principali processi trasformativi locali. Lo abbiamo individuato come il nuovo cardo della città: un nuovo asse, che a differenza di quello tradizionale, non è interno. Non si snoda tra città e città, ma tra mare e città. Agiamo, quindi, in quella linea che connette Palermo con il Mediterraneo e l’Europa. Qui stiamo concentrando grandi risorse di finanziamenti per interventi di rigenerazione urbana con un pensiero climatico: circa 80 milioni sono destinati alla bonifica della Costa Sud. Sull’altro versante, la Costa Nord, sorge un ex complesso industriale chimico di 86mila mq: per la sua rigenerazione prendiamo parte al bando Reinventing Cities.
Altro?
Stiamo lavorando su strategie che tengono in considerazione il fatto che Palermo è stata individuata tra le città europee più attrattive per i nomadi digitali. È una condizione che ci pone di fronte a una domanda di potenziali abitanti completamente nuova rispetto a quelli tradizionali, in termini di abitazioni, mobilità, offerta culturale, servizi. Questo dato è uno stimolo interessante per immaginare un disegno di città che possieda caratteri di flessibilità, adattabilità e incrementalità.
Valentina Silvestrini
Maurizio Carta – Sette Lezioni di Rigenerazione Urbana
LetteraVentidue, Siracusa 2025
Pagg. 617 € 39
ISBN 9791256440092
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